Governo Bennett, il ritorno alla normalità

Quanto segue è una breve nota, per dire una cosa semplice. Naftali Bennett e il suo tanto eterogeneo governo, almeno per i primi mesi (scrivo questo testo all’inizio di ottobre), ha significato il ritorno di Israele a una certa normalità. Per alcuni anni la vita del Paese era focalizzata sui problemi del precedente premier Benjamin Netanyahu. Non erano solo e tanto questioni prettamente politiche – i rapporti con i palestinesi, con la vicina Giordania, questioni dell’economia e via elencando – quanto le sue vicende giudiziarie. Non sappiamo quale sarà il verdetto dei giudici che si occupano delle accuse di corruzione ma il fatto è che la questione in cima all’agenda pubblica era una sola: la colpevolezza o meno di Netanyahu. E anche, al di là dell’opinione che si possa avere sulle sue idee, per forza delle cose la situazione di un capo di governo che fra le sue priorità aveva la ricerca – per via legislativa – dell’immunità dai procedimenti giudiziari lasciava l’impressione che egli non agisse solo per interesse pubblico. Né facevano bene (l’opinione è mia, ma condivisa da molti israeliani) i suoi attacchi continui contro chiunque potesse essere considerato un avversario o nemico: la stampa, “smolanim”, i “sinistrorsi”, il sistema giudiziario, i cittadini arabi, i partiti all’opposizione e potrei continuare. Aggiungo che per tre anni in Israele non veniva approvata la legge finanziaria portando così a ripetute elezioni politiche. Tutto questo perché Netanyahu sperava di arrivare a ogni elezione all’agognata maggioranza che gli avrebbe garantito una legge sull’immunità. Poi, il meccanismo si è rotto. Hanno detto basta persone una volta vicine a Netanyahu (Bennett, Gideon Saar, Ayelet Shaked) e che a un certo punto si sono sentite offese personalmente da lui.
Così Bennett, a giugno, si è trovato a capeggiare un esecutivo molto strano in apparenza. L’aveva costruito Yair Lapid, leader di un partito centrista, uomo intelligente, ambizioso, ma finora ritenuto non molto capace di costruire coalizioni e alleanze politiche. Ora invece ce l’aveva fatta. La chiave di volta era, appunto, offrire a Bennett la carica di premier, per i due primi anni della legislatura (poi gli deve subentrare Lapid). Ora, Bennett, è un uomo di destra. È contrario alla nascita dello Stato palestinese, è stato il leader dei coloni in Cisgiordania. Però è anche un uomo molto pragmatico. Lo ha dimostrato nella sua vita. Non abita in un insediamento, ma a Ra’anana, una cittadina di gente benestante, laica, non lontana da Tel Aviv. Anche il modo con cui ha fatto business (con un’impresa hi-tech poi venduta a prezzo altissimo) è stato quello di favorire cooperazione, leale con i soci.
Insomma, l’uomo bada al sodo ed è considerato onesto. Così perfino gli esponenti del Meretz, partito radicalmente di sinistra, si sono fidati di lui. Da parte sua Bennett ha fatto di tutto per coinvolgere nel governo la formazione di Abbas Mansur, il leader di uno dei partiti arabi in Israele.

La strana coalizione ha potuto funzionare perché – e qui c’è un paradosso – le aspettative sono state basse e così anche le richieste dei partner. A Mansur basta che alla popolazione araba arrivino i fondi necessari per modernizzare le infrastrutture nei villaggi abitati da suoi elettori. Niente richieste riguardanti il carattere e la natura dello Stato d’Israele. Ma intanto, un precedente è stato stabilito. Non solo. Un governo pragmatico significa che si coopera molto e si cerca di litigare poco. E si lavora. I ministri si occupano delle cose che spettano loro. Il risultato: sono stati riallacciati i rapporti con l’Autorità palestinese (senza porre il problema dello Stato), le relazioni con la Giordania sono tornate ottime, per non parlare di quelle con l’Amministrazione Biden. Lavorare insieme attorno alla soluzione concreta di problemi molto concreti (Salute, Istruzione, Infrastrutture) significa pure, banalmente, un cambiamento dell’immagine che i politici hanno dei loro, ormai, ex avversari. I ministri del Meretz hanno visto, nella quotidianità, che un esponente della destra, come è appunto Bennett non è quel “mostro” che dipingevano nella loro propaganda. E del resto, il premier ama ripetere di essere fiero di suo padre che negli Stati Uniti, negli anni Sessanta si batteva (e fu anche arrestato) contro il razzismo. E anche Bennett si è convinto che quelli di Meretz – favorevoli al ritiro dai Territori – hanno a cuore il bene e il futuro di Israele. E poi, c’è una questione fondamentale. Bennett porta la kippà, è il primo premier religioso in Israele. Ma i partiti ultraortodossi sono rimasti fuori dal governo, un fatto questo che a sua volta potrebbe portare a mutare il sistema di rapporti fra i charedim e i laici. E anche di questo tema, poco pacifico, si comincia a discutere, forse non serenamente ma più laicamente. Scusate se è poco.

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