Abraham B. Yehoshua

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Nel recente film-documentario del 2021 The Last Chapter of A. B. Yehoshua, il grande scrittore israeliano (1936-2022) ripercorre le tappe salienti della propria esistenza e guarda con stoica serenità alla morte che avverte vicina: eppure, nonostante il senso di solitudine gravata dal dolore per la recente perdita dell’amatissima moglie Rivka, il noto romanziere confessa di essere fiducioso nel trionfo dell’amore sui mali che affliggono il quotidiano. Credo che nessuno scrittore contemporaneo come Abraham Buli Yehoshua z”l abbia saputo coniugare l’abilità di descrivere nella sua opera letteraria gli aspetti più prosaici dell’esistenza con la sopraffina capacità di trasformare la concretezza e l’intimità del lessico famigliare in altissime metafore, miranti a suscitare nel lettore, qualsiasi sia il suo credo e la sua appartenenza culturale, profonda empatia per i personaggi e le vicende narrate. 

Oggi pare incredibile che, ancora alla fine degli anni ’80 dello scorso secolo, l’autore non avesse ancora conosciuto la fortuna che l’avrebbe portato, nel giro di un decennio, a divenire campione d’incassi sul mercato librario mondiale. Come afferma egli stesso in un’intervista pubblicata all’inizio del nostro millennio, la causa della scarsa considerazione dell’opinione pubblica intellettuale internazionale sarebbe stata da ricercare nel fatto che i suoi scritti «[…] non corrispondevano all’immagine che gli editori avevano di Israele: volevano essenzialmente guerra e kibbutz, e io non ne fornivo abbastanza» (Il lettore allo specchio. Sul romanzo e la scrittura, a cura di A. Guetta, Einaudi, Torino 2003, p. 3).

Quella che agli occhi dei critici di allora era una pecca è divenuta la massima dote dell’autore: astrarre al massimo il contingente, distillare la scena del vissuto domestico e dipingere affreschi di universale umanità. In uno stile vibrante, a tratti poetico, i paesaggi d’Israele, che fanno da sfondo alle narrazioni, si caricano di significati simbolici e aiutano anche il lettore meno preparato a percepire le vicende di un popolo profondamente legato a quella terra ma allo stesso tempo lontano dalla perfetta compenetrazione nelle sue dinamiche fisiche. È una metafisica della terra che i protagonisti delle opere di Yehoshua vivono sulla propria pelle, in perenne oscillazione tra il qui e l’altrove, tra presenza e assenza, in una costante dialettica che dovrebbe essere motore dell’esistenza di ogni essere umano. 

Yehoshua è stato e continuerà lungamente ad essere la voce narrante di una storia plurimillenaria, quella di generazioni di individui che aspirano a trovare una collocazione, sia essa una patria, una famiglia, un’occupazione, e che quando raggiungono l’obiettivo prefissato si allontanano per smarrirsi in altri orizzonti. Certamente l’ispirazione dalla grande letteratura ebraica precedente, motivata in larga parte dalle peripezie del popolo d’Israele, con le sue diaspore e le sue speranze di tornare in un luogo da chiamare casa, è fondamentale per comprendere l’evoluzione narrativa del grande scrittore, che affronta in parallelo lo sviluppo del moderno Stato e le fasi della propria vita. Nell’intervista del 2003 l’autore sosteneva:


Ho l’impressione che oggi i giovani scrittori siano meno legati alla tradizione letteraria di quanto non sia stato io, che ne ero molto dipendente. Vorrei sapere quanti, fra i giovani italiani che scrivono, pensano a Pirandello, alla Morante, a Bassani, a Gadda, e anche ad autori dell’Ottocento, se stabiliscono cioè un dialogo con il passato. So che in Francia questo tipo di dialogo è molto sentito […] non so quanto valga per l’Italia o per Israele […] Forse sarò sfacciato, ma non mi vergogno di dire che ho scritto il mio primo racconto basandomi sull’esempio di Shemuel Yosef Agnon. Ho cominciato a scrivere come un vecchio, tant’è vero che la storia si intitola La morte del vecchio. Avevo cose nuove da scrivere, ma non mi sono vergognato di indossare i panni di Agnon e di uscire in strada, alla vista di tutti (ivi, pp. 18-19). 

Yehoshua esordisce ventenne con racconti carichi di significati simbolici, scritti in una prosa essenziale, spesso aspra, come la Terra che i nuovi coloni erano intenzionati a domare. Nei suoi primi brevi testi l’autore riflette sul senso della Storia e delle transizioni di epoca in epoca. Una generazione va, una generazione viene e la storia si ripete secondo ritmi consueti: gli anziani appartengono a un passato che si vuole seppellire, i giovani sono disgustati dalle vecchie ideologie ma non sono capaci di crearne di nuove; si può sempre sperare nei bambini ma siamo sicuri che non saranno anch’essi schiacciati dalle dinamiche cicliche del tempo? Pensiamo alle vicende della Terra d’Israele: tutti la desiderano, tutti la vogliono conquistare – ebrei, cristiani, musulmani – ma alla fine essa non appartiene veramente a nessuno; hanno tentato i crociati, gli ottomani, i nuovi ‘olim. Eppure è lì che si è riunito un popolo che continua, nonostante tutto, a rimanere disperso nel mondo, dilaniato da conflitti interiori che sono quelli di tutta l’umanità. Conflitti soprattutto legati alla volontà imprescindibile di amare, di stringere nuove relazioni umane, legami famigliari possenti, basati sui valori tramandati. Lo scontro drammatico con la realtà dimostra però la fallacia della tradizione, assunta a sostegno delle certezze dell’uomo, come dimostrano con ogni evidenza i tumulti generazionali della famiglia Mani (Mar Mani/Il signor Mani) o le separazioni di coppie che sembravano destinate a restare unite per sempre; a nulla servono espedienti anche radicali, come il tentativo di ridare slancio a un antico amore che spinge Adam a trovare un amante per la moglie nel primo romanzo di Yehoshua (Ha-me’ahev/L’amante); talora sono eventi ineluttabili a segnare la fine di un’esistenza condivisa e a dare avvio a nuove e spesso vane ricerche, come in Molkho/Cinque stagioni. Il complesso e indefinibile rapporto di coppia resta al centro della narrativa dell’autore: persino i titoli di alcuni romanzi sottolineano la centralità del tema: Gherushim me’ucharim/Un divorzio tardivo; Ha-kallà ha-meshachreret/La sposa liberata

Colpa e redenzione, al centro della letteratura dalle origini del mondo, contribuiscono a restituire alla letteratura l’antico ruolo di strumento di critica morale. A una produzione narrativa che serva solo come diversivo e fuga da una realtà non pienamente condivisa, Yehoshua contrappone la necessaria attivazione nell’uomo di categorie etiche che lo spingano a ricercare in sé le motivazioni di un fallimento o di una catastrofe, come in un racconto biblico, un ma‘asé rabbinico o chassidico o una tragedia greca. Non è un problema nuovo quello della responsabilità individuale nel piano provvidenziale divino. Ma in un mondo in cui la presenza dell’Assoluto ha perso spessore, la creatura abbandonata al proprio destino deve forgiare nuove armi per ritrovare il proprio ruolo nell’universo. Il concetto di responsabilità personale, oggi messo sempre più in discussione, è fondamentale per Yehoshua: solo riconoscendo le proprie colpe e i propri meriti si ha diritto di guardare con consapevolezza alla realtà che ci circonda. Non per giudicarla ma per viverla con maggiore empatia. Per questo si deve tornare all’origine del problema – e qui si avverte il peso della psicanalisi, direttamente o indirettamente mediata dalla professione della moglie dello scrittore. Ci si deve immergere nella propria coscienza per compiere viaggi che servono a farci rendere conto dei tesori che possediamo vicini ma cui non prestiamo attenzione, senza necessità di lunghe peregrinazioni (Massa‘ el tom ha-elef/Viaggio alla fine del millennio; Shelichutò shel ha-memunné ‘al mash’abbé ha-enosh/Il responsabile delle risorse umane; Ha-minharà/ Il tunnel). Forse proprio la capacità di dar voce all’interiorità dei personaggi, nei modi in cui anche noi vorremmo dar sfogo alle nostre paure e realizzare i nostri desideri, è uno dei grandi segreti del successo di Yehoshua. Nelle sue pagine ogni lettore può immedesimarsi e trovare soluzioni alle ansie che lo attanagliano. Lo scrittore sottolinea: «I rapporti tra la letteratura e la vita reale sono molto più complessi di quanto possano essere le dichiarazioni pubbliche o politiche, ma non è possibile che non ci sia un qualche legame fra di loro, la letteratura non è sempre separata dalla politica e dall’ideologia personale» (Il lettore allo specchio, p. 95).

Non è un caso dunque che proprio Yehoshua sia divenuto, e particolarmente in Italia a partire dagli anni ’90, lo scrittore israeliano più amato. La sua fama si è diffusa anche grazie ai saggi e agli articoli apparsi su quotidiani e riviste in cui è intervenuto a sostegno di posizioni pacifiste e della distensione nei rapporti tra ebrei e arabi in Israele. A questo tema l’autore, di cui merita ricordare l’origine sefardita – la famiglia paterna risiedeva nella Palestina ottomana da generazioni e la famiglia materna veniva dal Marocco – dedica gran parte della propria produzione: nelle sue opere compaiono arabi, perlopiù connotati positivamente, certamente votati al dialogo, anche se spesso fraintesi a causa dei pregiudizi della società circostante. Un caso emblematico è il personaggio di Na‘im, l’operaio adolescente che nel primo romanzo dell’autore aiuta Adam a ritrovare l’amante perduto della moglie e diventa a sua volta amante di sua figlia. Una relazione resa difficile dalla diversa appartenenza religiosa dei due giovani e destinata a interrompersi proprio per i pregiudizi di chi continua a vedere in Na‘im solo una forza lavoro e non un proprio pari. Eppure il giovane arabo fa di tutto per impressionare positivamente la famiglia di Adam, addirittura recitando a memoria poesie ebraiche nazionaliste. Il dialogo spesso lacunoso tra le varie componenti della società israeliana è anche al centro dello splendido affresco de La sposa liberata, così come del romanzo genealogico Il signor Mani. E, con slancio poetico eccezionale, al capovolgimento degli stereotipi nord-sud è dedicato Viaggio alla fine del millennio, il cui protagonista, il mercante tangerino Ben Attar, si ostina a voler convincere la società ebraica ashkenazita dell’utilità di accettare la cultura mediterranea. Si legge qui in trasparenza una delle questioni più dibattute nell’Israele della fine del secondo millennio, la difficile integrazione dell’elemento mediterraneo nella società centro ed est-europea alla base della costituzione dello Stato moderno. Ma ancora una volta il divario nord-sud all’interno del mondo israeliano non è che uno specchio dei conflitti tra aree geografiche e culture diverse su scala globale. La lettura delle opere di questo grandissimo narratore, di cui avvertiremo ben presto la mancanza, regala non solo pagine di intensa bellezza ma anche acute riflessioni che, oltre a renderci consapevoli della nostra natura umana, ci aiutano a comprendere le grandi sfide della società odierna.

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