Antonietta Raphaël tra sogno e tradizione

Autoritratto con violino, 1928, olio su tavola, cm. 52,3 x 3,5, coll. privata, Roma. Fonte: https://www.raphaelmafai.org/it/antonietta-raphael/selezione-delle-opere/pitture

«Mia madre era una strega, ho sempre pensato che lo fosse […] unica, diversa», così l’indomita e anticonvenzionale Antonietta Raphaël viene descritta dalla figlia Giulia Mafai nella sua appassionante biografia La ragazza con il violino (Skira, Milano 2012, p. 9) che, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, non presenta in copertina l’omonimo autoritratto (1928) della grande artista, ma una fotografia del 1916 nel suo studio londinese, in cui è ripresa con una lunga tunica bianca che, contro ogni moda, continuerà a indossare insieme a comode tute da lavoro, davanti a un pianoforte con due grandi candelabri, uno spartito di Bach tra le mani, un quadro nella parete alle spalle, a sottolinearne efficacemente la multiforme personalità.

Antonietta nasce a Kovno (Lituania) nel 1895 figlia del rabbino Simon e dopo la sua morte nel 1905 si trasferisce con la madre a Londra, dove si diploma in pianoforte alla Royal Academy, dedicandosi poi alla musica. Dopo la morte della madre nel 1924 intraprende un viaggio a Parigi e poi a Roma, che pur con frequenti assenze rimarrà la sua città e dove morirà nel 1975. 

Autoritratto con violino, 1928, olio su tavola, cm. 52,3 x 3,5, coll. privata, Roma

Qui infatti ha luogo il determinante incontro con il pittore Mario Mafai, a cui rimarrà legata in un difficile ma fondamentale scambio affettivo e artistico. Attratta dapprima inaspettatamente dalla sua «aria così spirituale […] Sembrava un giovane rabbi, di quelli che frequentavano la scuola di mio padre» (p. 31), viene da lui invogliata, quasi per gioco, alla pittura. Con il suo apporto, nella loro casa di via Cavour si crea l’omonimo gruppo di artisti che avrà un ruolo determinante nella pittura italiana del Novecento. Dopo la promulgazione delle Leggi razziali e la chiamata alle armi del marito, si trasferisce a Genova con le figlie Miriam, Simona e Giulia, torna a Roma nel 1943, poi di nuovo a Genova nel 1945 e vi rimane fino al 1950.
Anche il problematico rapporto dell’ebraismo con le forme della visualità viene vissuto dalla «pazza ragazza russa», come la definiva l’amico Scipione, esponente del Gruppo, in una propria dimensione. 
«Due cose mi tormentavano da piccola; la religione e il sogno. La prima mi è rimasta in eredità dai miei genitori e si è fusa con la loro indomabile fede […] e regola la mia vita artistica e morale […] ma il sogno benché proibito di crederci, affascinava e mi terrorizzava ad un tempo, lo preferivo e lo preferisco tuttora alla brutale realtà». 
Così scrive nei suoi diari e in verità la tradizione ebraica e il sogno saranno una presenza fondamentale nella sua opera, in infinite variazioni.
Pur nel suo coraggioso anticonformismo, mantiene per tutta la vita un autentico senso religioso con l’osservanza dei riti di Shabbat e delle festività, ma come sottolinea Giulia Mafai, unica delle figlie osservante dell’ebraismo, anche con riferimenti biblici nella quotidianità, come il rispetto del creato, contro ogni forma di distruzione. Riuscendo a conciliare in modo personale arte e religione, ama le sue opere come figli, le custodisce e le conserva «proteggendole come se fossero i sacri rotoli della Torah» (p. 45). La profonda connotazione religiosa della sua produzione è una lotta incessante contro «un nemico oscuro con cui confrontarsi, combattere per arrivare a domare l’immagine che dentro di lei premeva impetuosa per uscire alla luce […] come se fosse stata investita da un ordine superiore venuto dall’alto» (p. 56). Rivendicando la sua originalità, rifiuta la definizione di Longhi «sorellina di latte di Chagall» e ribadisce in un’intervista del 1929 su Italia Letteraria la sua particolare ricerca: «È errato dire che i miei colori somigliano a questi due grandi artisti Kandinskij e Chagall. I miei sono più mediterranei […] hanno qualcosa di Bizantinismo». Se alle icone russe, senza una definita prospettiva, sembrano infatti ispirarsi i ritratti dei suoi genitori, i suoi colori sono sempre vigorosi e selvaggi.

Le tre sorelle, 1936, cemento, cm. 97, Galleria d’Arte Moderna, Roma

La scelta delle tematiche è un aspetto dell’infinito confronto con la sua ebraicità. I suoi paesaggi, ha sottolineato Bruno Zevi, non seguono l’idolatria dello spazio, ma raffigurano una dinamica dimensione del tempo, in cui il passato si intreccia con il presente. L’Arco di Settimio Severo appare nella luce cangiante dell’alba, l’antichità di Roma si accompagna con le costruzioni e le distruzioni della modernità. Mai appare l’odiato Arco di Tito che, per la sua celebrazione della distruzione del Tempio, rifiuterà sempre di attraversare. Le nature morte presentano composizioni inconsuete con ritratti e strumenti musicali, in ricordo della sua vita precedente.
Insieme alle ricorrenze, come la madre che accende le candele di Shabbat e un grandioso Kippur in sinagoga, nella sua personale interpretazione dipinge personaggi biblici, come Giobbe sofferente o Giuditta e tante altre eroine che appaiono come trionfanti e indipendenti figure femminili. Gli innumerevoli autoritratti, oltre la realtà, si trasfigurano nel sogno, attraverso il motivo ricorrente dello specchio, confrontandosi con i propri fantasmi o trasformandosi in figure mitiche. Con il marito c’è un ininterrotto dialogo di splendidi ritratti reciproci, fino all’omaggio postumo con un quadro gigantesco che lei gli dedica nel 1967. Le figlie, da sole o insieme, fin dalla nascita e poi in tutti i periodi della loro vita, sono ricorrente fonte di ispirazione con autentici capolavori. La maternità, che si intreccia in maniera assolutamente inconsueta per i tempi con le scelte di autonomia e autorealizzazione artistica, rappresenta per Antonietta Raphaël una straordinaria peculiarità femminile, come una sorta di divina capacità di creazione e le rende spesso omaggio.

Mia madre benedice le candele, 1932, olio su tela, cm. 66 x 51,8, coll. Berti, Roma

Nel 1930, dopo la nascita dell’ultimogenita Giulia, va a Londra con il marito e poi vi rimane da sola. Nello studio di Jacob Epstein compie il suo passaggio alla più idolatrica delle arti: la scultura, diventando secondo Cesare Brandi «l’unica vera scultrice italiana». Tornata a Roma nel 1934 comincia la nuova fase, «come l’araba fenice ricomincia sempre una nuova vita – la seconda, la terza, la quarta, ma quante ne ha ancora nascoste, la vecchia Baba Yaga, dentro il suo sacco?» (p. 185), si chiede la figlia Giulia, ma in verità anche le sue opere – quadri e sculture – sono sottoposte a un continuo ricominciare, vengono rifatte più volte, con materiali diversi, in un incessante superamento, infondendo un’insolita dinamicità anche al processo creativo. Come ha scritto poeticamente nel suo diario:

L’arte è infinito; e perciò
è difficile, per un vero artista, 
pronunciare ad una sua opera: 

Finito! 

Nella parola “finito”, 
il cerchio si chiude.

A contrassegnare le sue sculture sono inquietudine, sofferenza, smisurata grandiosità, pose inconsuete, mutilazioni che danno una nuova lettura delle figure bibliche, come Davide non trionfante che piange Assalonne, o la propria interpretazione al femminile della fuga da Sodoma. Nella Genesi un figlio esce dalla testa, come a riprendere il mito greco della nascita di Atena. La maternità ritorna in diverse variazioni, tra cui il capolavoro delle Tre sorelle, in cui le figlie appaiono insieme nella loro diversità. Nell’autorappresentazione non manca il gioco del rispecchiamento nella concretezza dei materiali, in varie edizioni, a fissare gli inevitabili mutamenti della percezione di sé, e la dimensione onirica in quella che ritiene la sua scultura più bella, la Sognatrice, a suo dire, capace di sognare i suoi sogni.

Fino all’ultimo continuerà l’irrefrenabile vagare dell’artista, da Roma alla Sicilia, dove vive la figlia Simona, alla Spagna, alla Cina, dove si reca con una delegazione ufficiale nel 1956, traendone sempre ispirazione per variare i temi consueti e aggiungerne di nuovi, in una inarrestabile e poliedrica creatività in cui pittura e scultura convivono nelle loro differenti forme espressive. 

Sono le sue parole a riassumere felicemente i saldi valori della sua vita: «ti ringrazio Dio, di avermi creato donna e di avermi infuso tanto amore per le mie bambine, per la natura, i fiori, la musica e la mia scultura».

I diari sono disponibili online nel sito del Centro Studi Mafai Raphaël, dal quale sono tratte anche tutte le immagini.

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