Il giudaico romanesco, un dialetto vivo, teatrale e… cinematografico

Ettore Roesler Franz, Via della Fiumara in Ghetto allagata, 1880 ca (Credit Wikipedia.org)

Il giudaico romanesco è il dialetto, ma forse sarebbe meglio dire la lingua, parlata dai “Bnei Romi”: i figli di Roma, gli ebrei romani.
Quella romana è, notoriamente, la più antica delle comunità ebraiche della diaspora e i primi contatti e accordi con il Senato romano risalgono già al 164 a.e.v.
Il primo stabile stanziamento ebraico nell’Italia peninsulare avviene attorno al 139 a.e.v. nella zona di Ostia e a Roma, dove gli ebrei abitarono nella zona in cui ora sorge il quartiere di Trastevere, residenza di soldati semplici, artigiani e stranieri senza cittadinanza romana.
La zona, tuttavia, era alquanto malsana a causa delle esondazioni del Tevere, per porre rimedio alle quali la “comunità”, che in età postaugustea contava circa 8.000 membri, nel corso del XIV secolo si spostò sulla riva sinistra del Tevere proprio dove attualmente si trova la cosiddetta “Piazza Giudia”.
La Comunità ebraica in Roma antica trovò benessere e prosperità, grazie anche alla protezione di Giulio Cesare che le accordò una propria giurisdizione e ampi diritti civili e commerciali. 
Le rivolte nella provincia romana di Giudea e la distruzione del Tempio di Gerusalemme nell’anno 70 e.v. peggiorarono il rapporto fra Ebrei e Romani.
Nel frattempo si andava diffondendo la religione cristiana e, per qualche tempo, ebrei e cristiani furono esposti insieme alle persecuzioni.
Affermatasi la religione cristiana, la tensione fra ebrei e cristiani cominciò sotto papa Leone I (440-461) e Gregorio VII: alcuni verdetti pronunciati contro la Comunità ebraica limitarono sempre più la possibilità di scelta della professione per i suoi membri. Fu loro vietato l’accesso alle cariche pubbliche.
L’epoca delle Crociate inasprì questa situazione già dura. 
Nel Medioevo la situazione si fa via via più difficile: a partire dal XII secolo, oltre alle vessazioni economiche si aggiungono le umiliazioni.
Alla Comunità ebraica romana viene imposto “l’atto di ossequio”, ossia l’omaggio di un sefer Torà al Papa neoeletto durante il corteo di insediamento.
Nel periodo del Carnevale, durante i cosiddetti “ludi carnascialeschi”, gli ebrei vengono obbligati a correre come cavalcature portando i cristiani sulle spalle.
È nel periodo medievale che nasce e si sviluppa il giudaico romanesco, idioma assai simile al romanesco antico di derivazione prettamente meridionale, influenzato dal ciociaro, dal lucano e, in misura minore, dal napoletano.
La struttura del giudaico romanesco vede l’uso di parole ebraiche declinate e coniugate secondo le regole grammaticali italiane.
Alcuni esempi sono i termini “addaberare”, che significa dire, parlare, dall’ebraico dabber; la parola berakhot, benedizioni diviene “berachodde”, con il plurale affine all’italiano; “io ho” si dice “aio”, “io sto” diventa “staio”.
Meridionali sono i termini “patreto”, “fijemo”, “ziemo” per indicare “tuo padre”, “mio figlio” e “mio zio”.
Il giudaico romanesco diviene “lingua ufficiale” con l’istituzione del ghetto di Roma.
L’istituzione dei ghetti nacque in Italia durante il periodo della Controriforma. Il motivo era dovuto al timore che i rapporti di amicizia tra gli ebrei ed i cattolici potessero costituire un serio pericolo per la purezza della fede cristiana.
Venne disposta la limitazione della libertà, di cui gli ebrei avevano goduto, per rendere meno frequenti i contatti fra loro e la popolazione cristiana, con l’osservanza di tutte le disposizioni in proposito emanate da papa Paolo IV Carafa nella bolla, dal titolo Cum nimis absurdum del 14 luglio 1555.
In questa bolla, composta di 15 paragrafi, si stabiliva nei confronti degli ebrei: l’obbligo di abitare in una località appartata, con un solo ingresso; il segno ebraico; il divieto assoluto di parlare o trattare con i cristiani se non per necessità di lavoro; la proibizione di avere beni stabili; la proibizione di tenere banco aperto nei giorni festivi cristiani; la proibizione ai medici ebrei di curare i malati cristiani (anche se chiamati o pregati); disposizioni riguardanti i prestiti ed il computo degli interessi; la proibizione di tenere libri di prestito scritti in carattere ebraico, in modo che questi fossero sempre sotto controllo; il permesso di esercitare il solo mestiere del cenciaiolo; il permesso di possedere una sola sinagoga; la proibizione di avere al servizio nutrici e domestici cristiani.
Furono così sancite la discriminazione professionale, la limitazione dei mestieri ristretti a quelli di cenciaiolo e rigattiere, fu confermato solamente il diritto di domicilio o diritto di affittanza trasmissibile per via ereditaria, il cosiddetto “jus gazagà”.
Agli ebrei non era permesso lasciare fra il tramonto e l’alba il quartiere a loro assegnato, completato nel 1566. La zona circondata da mura fra il Teatro Marcello e il Tevere, con la porta principale sulla piazza delle Cinque Scole, non fu mai più grande di tre ettari e forma ancora la circoscrizione di S. Angelo.

La forzata reclusione nel ghetto e la limitazione dei contatti con il resto della popolazione romana impedirono qualsiasi cambiamento del dialetto, mentre il romanesco del popolino, quello attuale, risulta modificato profondamente dal toscano penetrato a Roma, specialmente nel XVI e XVII secolo, a seguito del susseguirsi al soglio pontificio di papi toscani. Ovviamente ogni pontefice si portava dietro la sua curia toscana e non bisogna credere che si trattasse di poche persone: erano centinaia fra prelati, segretari, domestici e… amanti.
La reclusione nel ghetto durò, per gli ebrei romani più di tre secoli, fino al 1870, quando le truppe italiane del generale La Marmora posero fine, per sempre, al decrepito e anacronistico Stato Pontificio e, di conseguenza, al ghetto.
L’integrazione nell’Italia postrisorgimentale degli ebrei romani con il resto della popolazione italiana non fece dimenticare la “lingua di famiglia” che continuò, e tuttora continua, ad essere una specie di “codice” utilizzato, alla bisogna, per… non farsi capire dagli altri. 
Per questa ragione, a differenza delle altre parlate giudaico italiane, il giudaico romanesco continua ad esistere grazie anche ad un suo utilizzo, come dire, letterario.
Ironia della sorte, a forza di frequentare i commercianti ebrei anche i non ebrei cominciarono ad utilizzare alcuni termini giudaico romaneschi. Abbastanza comune, tra i non ebrei, è l’uso del termine “macom” che in ebraico significa “luogo”, “posto”. Per antonomasia il “macomme” è il gabinetto. In un film degli anni ’80, Enrico Montesano lo utilizza per chiamare un amico: «Ao’ che sei ar macomme?».
L’utilizzo letterario del giudaico romanesco e, di conseguenza, la sua sopravvivenza si deve, in modo particolare, a Crescenzo Del Monte.
Crescenzo Del Monte nacque, a Roma, nel 1868 e morì nel 1935, fu membro attivo della allora Università israelitica venendo a conoscerne tutti i maggiorenti.
Grande ammiratore di Giuseppe Gioacchino Belli, scrisse tre raccolte di sonetti: i Sonetti giudaico romaneschi nel 1927, i Nuovi sonetti giudaico romaneschi nel 1932 e i Sonetti postumi giudaico romaneschi e romaneschi nel 1955, tutti pubblicati dalla Casa editrice Israel di Firenze. Dopo Crescenzo Del Monte nessuno ha più utilizzato questo antico dialetto in forma scritta e il giudaico romanesco è rimasto una lingua prevalentemente parlata. 
Alla fine degli anni Settanta, però, si è notata una netta ripresa del giudaico romanesco che è uscito dagli angusti confini del sonetto vedendo l’affiancamento anche di pièce teatrali originali e, addirittura, di gruppi che si sono dedicati al doppiaggio di film famosi, ovviamente in chiave comica.
Un contributo a questa rinascita si deve a Salvatore Fornari, argentiere e poeta per diletto che, tra il 1978 e il 1987, restituisce dignità letteraria a questa lingua, scrivendo sonetti e poesie ambientati nella piazza Giudia di quel periodo, pubblicati dopo la sua morte avvenuta nel 1993. Salvatore Fornari ha anche il merito di aver intelligentemente ironizzato anche sul confronto/scontro cultural-gastronomico tra la comunità romana e quella tripolina. Un altro importantissimo contributo lo ha dato morè Nello Pavoncello z”l  con la sua raccolta di Modi di dire ed espressioni dialettali degli ebrei di Roma (Roma 1986 e 1988, ora in www.torah.it).
Ma, più della produzione letteraria, è significativa l’attività artistica che si sviluppa attorno a questo dialetto. Negli anni ’80 un gruppo di giovani ebrei comincia a scrivere commedie in giudeo romanesco e le rappresenta in teatro dopo aver formato una compagnia chiamata “Chaimme ‘a sore ‘o sediaro e ‘a moje”, composta da attori dilettanti.
A loro si devono commedie come: “Il popolo è eletto ma non lo dite a D-o”, “Pur’io riderio se ‘o matto ‘un fosse ‘o mio”, “Nisciuno l’avria da provà” e “My ngacir lady!” (“La mia ricca signora”, da ‘ashir che significa ricco), parodia della celeberrima “My fair lady” con Audrey Hepburn e Rex Harrison, rappresentate in vari teatri di Roma. 
Negli anni ’80 Angelo Piperno, detto Barotto, cura una pubblicazione sui “soprannomi” con i quali vengono da sempre indicati molti membri della Comunità, dato che altra particolarità dell’universo giudaico romanesco è l’utilizzo di soprannomi che, spesso, hanno finito per sostituire il vero nome di molti personaggi; soprannomi spesso mutuati dall’insegna di “bottega” (Foriù dall’insegna For you), dalla provenienza (canadese, modenese) o da loro particolarità caratteriali: Piagnino (per via della parlata piagnucolosa); Fastidio (per il carattere irascibile) (Soprannomi e… contorni, Logart press 1993).
L’uso dei soprannomi era talmente diffuso che, per ovviare ai casi di omonimia, la Comunità di Roma, nel compilare l’elenco dei contribuenti che sovente riuscivano ad evadere le tasse grazie, appunto, alle omonimie, elaborò le schede anagrafiche inserendo, oltre a nome e cognome, anche uno spazio riservato al “soprannome” riuscendo a ridurre in modo drastico la piaga dell’evasione.
Ma il giudaico romanesco è, e rimane, essenzialmente un modo di parlare in codice.
La nostra vicina di casa ebrea, lamentandosi un giorno con mia madre per la confusione che facevano le bambine al piano di sopra, per non farsi capire da altri esclamò: «Addaberate alla chiusa che le nghangharelle nun facessero bavelle che la nghevrì ha da halommià». Tradotto significa: «Dite alla signora (non ebrea) che le bambine non facessero confusione che la signora (ebrea) deve dormire».
La medesima vicina quando spettegolava di tradimenti coniugali di conoscenti usava il termine “c’ha li ciofaroddi”.  La derivazione è, chiaramente, da shofar, il corno di montone, e l’uso del plurale indica, senza ombra di dubbio, il reale significato dell’espressione.
“Du sciosciannimmi” indica un prosperoso seno femminile e “tachad” la parte su cui non batte (o, almeno non dovrebbe mai battere) il sole.
Fermiamoci qui, evitiamo di cadere nell’uso di termini che potrebbero risultare un po’ troppo spinti.
Concludiamo illustrando un’altra “specialità” giudaico romana, quella dei modi di dire.

Facciamo alcuni esempi:
“Esse n’Bangavonodde” (da ba‘awonot, a causa dei peccati) sta ad indicare un povero disgraziato;

“Annare a ngazazelle” (da ‘azazel, ossia il capro che veniva sacrificato) per indicare che qualcosa è andato in rovina, è andato male;

“Fa resciudde” (da reshut, chiedere il permesso di andarsene) significa squagliarsela all’inglese;

“Fa na sciabbachata” significa fare confusione, fare una piazzata (dalla confusione che accompagna la preghiera di Shabbat);

“Avè ranghavve” (da ra‘av fame) sta a significare avere fame.

“O’ Moreno” (il nostro maestro) indica il Rabbino capo della Comunità.

Ciò è quanto; per dirla alla Manzoni: «se siamo riusciti a interessarvi vogliateci bene, se vi avessimo annoiato, credete: non s’è fatto apposta».

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