Aharon Appelfeld e la memoria dei DP Transit Camps nell’Italia meridionale del dopoguerra

A conclusione del corso di lingua e letteratura ebraica dell’anno accademico 2022/23 presso l’Università degli Studi di Firenze, ho avuto modo di affrontare, nel contesto di una serie di lezioni tenute dal professor Alberto Legnaioli dedicate ad Aharon Appelfeld (1932-2018), un aspetto forse meno noto della vita e dell’opera del celebre scrittore israeliano. Nel mio breve modulo mi sono concentrato sulla produzione di Appelfeld relativa alla descrizione del periodo da lui trascorso nell’Italia meridionale nell’immediato dopoguerra.  

Mi occupo da tempo della memoria dei profughi ebrei che soggiornarono per periodi più o meno lunghi nei campi di transito allestiti dalle Forze Alleate nel sud della nostra penisola. Si tratta di un segmento della storia contemporanea del Paese che ha avuto inizio alla fine del 1943, quando le armate angloamericane scelsero alcune località – spesso già in passato utilizzate dal governo italiano fascista come centri per l’internamento forzato di prigionieri politici – per organizzare campi di accoglienza destinati ad ospitare i numerosi sfollati che il conflitto mondiale aveva determinato. La Puglia, e il Salento in particolare, ma anche la Campania e la Calabria, ospitarono decine di migliaia di persone di varia provenienza, che vissero talora in vere e proprie abitazioni, come nella regione del Tacco d’Italia, più spesso in ripari di fortuna, caserme o capannoni militari. 

Soprattutto dalla fine del ’44 al ’48 (ma alcuni centri furono operativi ancora per un altro paio di anni) i DP (Displaced Persons) Camps accolsero ondate successive di profughi. Gli ultimi, in ordine di tempo, a raggiungere queste destinazioni furono ebrei, provenienti perlopiù dall’Europa orientale, in gran parte superstiti della Shoà. In Salento, negli anni della massima attività dei campi, la composizione della società locale mutò radicalmente: da esclusivamente italiana essa si trasformò celermente in una compagine mista di elementi serbi, bosniaci, austriaci, tedeschi, ungheresi, polacchi, cechi, russi, lituani, greci, che convissero, oltre che con i residenti, con soldati della Brigata Ebraica provenienti dalla Palestina mandataria, con emissari dello yishuv (la componente ebraica dei territori ex ottomani allora controllati dagli inglesi), con militari e ausiliari delle Forze armate angloamericane, con i responsabili di organizzazioni assistenziali (la principale era l’UNRRA, United Nations Relief and Rehabilitation Administration, che cooperava con altri enti ebraici, ad esempio l’American Joint). La popolazione dei campi non aveva l’obbligo di risiedervi stabilmente e le memorie dei profughi ci forniscono numerose informazioni sulle loro incessanti peregrinazioni, generalmente finalizzate a sottrarsi al controllo dei britannici e ad organizzare partenze clandestine via mare per la Terra d’Israele. In vario modo i rifugiati riuscirono a ricomporre i frammenti delle loro esistenze devastate in nuove esperienze di vita, finalizzate principalmente a trovare una patria più stabile e definitiva al di là del mare.

Si può comprendere come per la storia d’Israele l’analisi delle testimonianze relative al passaggio dei profughi ebrei dall’Italia meridionale nel secondo dopoguerra sia estremamente significativa, perché permette di colmare la lacuna nella descrizione delle vicende del popolo ebraico tra le persecuzioni nell’Europa del periodo anteriore e contemporaneo alla Seconda guerra mondiale e l’arrivo dei superstiti della Shoà in Palestina o in altre mete dell’emigrazione. 
In tale ottica, è assai significativo prendere in esame alcune opere di scrittori israeliani che documentano da un punto di vista letterario le loro esperienze nell’Italia del dopoguerra. Ad esempio, Hanoch Bartov (1926-2016), giunto nella penisola verso la fine del conflitto come militare della Jewish Brigade delle forze britanniche, nel suo romanzo Pitz‘e bagrut (Ferite di maturità, Tel Aviv 1965) fornisce una cruda e sconvolgente testimonianza. Nell’opera si narra di un giovane idealista, l’adolescente Elisha – evidente proiezione autobiografica – che assiste con i propri occhi al recupero dei superstiti della Shoà nell’Italia appena liberata dalle Forze Alleate. Bartov descrive l’arduo confronto dei soldati provenienti dalla Terra d’Israele con l’identità ebraica della diaspora. Fino al loro arrivo nella nostra penisola, molti dei militari, nati o vissuti a lungo in Palestina, avevano nutrito la ferrea certezza di essere gli unici esponenti effettivi del popolo d’Israele, ma l’incontro con i sopravvissuti alle deportazioni naziste e fasciste li induce a riflettere sull’importanza imprescindibile della diaspora e, infine, sul significato ultimo dell’essere ebrei. 

Quando il protagonista incontra sulle Alpi italiane un gruppo di giovani superstiti dei campi di sterminio, il confronto delle proprie esperienze adolescenziali, narrate con la chutzpà del sabra, con quelle, ben più drammatiche, dei suoi interlocutori, lo induce a ridimensionare il proprio ego smisurato:

Mi sedetti sul duro cemento e dissi: «Provate a farmi delle domande, forse vi posso rispondere».
«Che cosa ci succederà ora?», chiese il più grande. 
«Vi porteremo in Terra d’Israele», risposi con un sorriso. 
«Guardate quest’eroe», disse il più piccolo, «pensa di portarci in Terra d’Israele così, come se nulla fosse. E gli inglesi, li avete già sistemati?» 
“Sistemati”, non potevano fare a meno di usare questo verbo. “Sistemare” era l’unità di misura di ognuna delle loro azioni: afferrare, agguantare, rapinare, mentire, usare ogni mezzo per raggiungere uno scopo, lasciarsi la morte alle spalle. Inutile tentare di ingannarli, neppure in sogno, pensai, e così risposi alle loro domande come se parlassi tra me e me (traduzione mia, p. 142).

Aharon Appelfeld testimonia in varie sue opere la propria esperienza di profugo adolescente nei campi di transito dell’Italia del Sud. Nel romanzo Mikhwat ha-or (Scottatura di luce, Bnei Berak 1980), l’autore ricorda con commozione il periodo trascorso nel 1946 insieme a numerosi altri superstiti della Shoà in una località sul litorale campano, nelle vicinanze di Napoli. Nel tratteggiare i suoi personaggi, Appelfeld mette in luce, da un lato, la difficoltà dei sopravvissuti di risarcire le ferite ancora aperte della memoria e, dall’altro, la loro volontà di riprendere una vita degna di questo nome: 

A fine febbraio iniziarono a soffiare miti brezze marine. Ondate di profughi giungevano da ogni parte, esercito sconfitto di uomini alti e di giovani donne abbandonate […] Le spiagge sgombre e incontaminate fino a pochi mesi prima si riempirono di fragore: varietà e abbondanza di caramelle e bevande colorate davano più che altro l’impressione di una distruzione ciclica. I malati venivano portati via come sacchi fradici; il ricordo degli anni di guerra, anni di fame, sbiadiva, quasi non fossero mai esistiti. Nessuna pietà per i propri simili. Al sopraggiungere del carretto dei cocomeri dal paese, gli uomini lo assaltavano come un malvagio sciame di vespe. Nel frastuono si levavano anche le voci dei profeti di sventura, dei moralisti, promesse di ogni genere che non sarebbero mai state mantenute. La spiaggia era tutto un proliferare di parole, di slogan. “Guai a ricordare gli orrori della guerra!” Sui banchi del mercato si poteva comprare di tutto, giacche colorate, cinture, occhiali da sole, gonne fiorite e perfino vasi dipinti. C’erano delle belle donne che si sforzavano di adottare le maniere delle dive fatali, sorrisi sonori e smorfiette che richiamavano alla memoria vacanze lontane. Gli anziani si davano da fare a cambiare denaro, a racimolare dollari, a chiedere l’elemosina al Joint, a scrivere lettere disperate ai parenti americani e di notte si recavano alla baracca degli intrattenimenti, ove si esibivano in successione giocolieri, cantanti e spogliarelliste giunte da Napoli (traduzione mia, p. 12).

Oltre che nel romanzo citato, Appelfeld racconta le sue esperienze di profugo in Italia meridionale in numerosi racconti. Durante le lezioni è stato letto e tradotto integralmente il testo di “Chanukkà 1946”, comparso a stampa nella raccolta Adné ha-nahar (Letti fluviali, Bnei Berak 1971, pp. 103-107). Eccone l’inizio, nella mia traduzione:

Nel 1946, nei giorni di Chanukkà, sulla costa sfrangiata di Napoli, ai Friedel nacque un bambino. Non c’era un mohel per introdurlo nel patto di nostro padre Abramo e il terrore raggelava la gioia della madre. Il bambino non smetteva di piangere e il suo pianto riempiva di sgomento la baracca. Si diceva che sui monti abitasse un mohel ma nessuno sapeva come raggiungerlo. Altri erano dell’opinione che il bambino dovesse essere circonciso in Terra d’Israele. Venti freddi soffiavano dalla costa. L’acqua del mare aveva perso il suo colore blu e le onde gravide scaricavano sul litorale una schiuma verdastra. I Friedel non erano più giovani e la loro gioia si era mutata in terrore. Stavano abbracciati sull’uscio della baracca. All’interno si giocava a carte. Non c’era paglia e il bambino era stato deposto su un mucchio di abiti da cui si levava l’odore del disinfettante sparso dal veterinario. La donna mormorava sommessamente. Continuava a ripetere che forse si sarebbe potuto trovare un mohel disposto a venire lì. Il veterinario andava a trovare il bambino e diceva: “Si vede che è sano”. Ma la paura non abbandonava i genitori – tutte le numerose paure che si portavano dietro trasparivano dai loro sguardi. La madre non si allontanava dalla porta, come se così potesse affrettare la venuta del redentore… (p. 103)

Il gioco di specchi messo in atto dall’elegantissima prosa di Appelfeld rende evidente la drammaticità della situazione descritta, attraverso una ricerca complessa di immagini e richiami concettuali contrastanti. È Chanukkà, festa di luce e di gioia, momento particolarmente lieto per i bambini, ma per la coppia Friedel è solo un’epoca di angoscia, trascorsa in una località mediterranea in cui il sole è assente, il mare è scuro e soffiano venti freddissimi. Al calore della festa si contrappone il costante richiamo al gelo dei sentimenti. Le scene descritte sembrano rinviare, in chiave tragica, al soggetto pittorico della natività: il bambino, che non cessa di piangere, non è serenamente adagiato sulla paglia della stalla ma giace, all’interno di una baracca, su un mucchio di fetidi abiti vecchi, forse i capi di seconda mano che arrivavano nei DP Camps grazie agli aiuti internazionali e di cui tanto si parla nelle memorie del periodo. Dovrebbe essere una celebrazione di redenzione nazionale, ma il go’el tanto atteso non si vede. Per i profughi, desiderosi di lasciarsi alle spalle le tragedie della Shoà, la persona messianica che dovrebbe condurli in Terra d’Israele non arriva mai. Le stesse sensazioni che traspaiono dalla lettura delle memorie di Moshe Ron (Un’odissea dei nostri giorni, Galatina 2005) o di Shemu’el Mordechay Rubinstein (si veda il sito https://srmemo.blogspot.com), nell’opera di Appelfeld si rivestono di una solennità metafisica, che rivela l’immenso talento narrativo dell’autore israeliano di recente scomparso.

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