Kikar Hahatufim, Tel Aviv (credit Wikimedia Commons)
Dopo il 7 ottobre, con il passare dei giorni, la consapevolezza che è successo qualcosa di epocale diventa per me sempre più chiara. È accaduto qualcosa di diverso, sono stati rotti tutti gli schemi precedenti. Il mondo che conoscevamo, il Paese che conoscevo non può più essere lo stesso, non c’è più. Le notizie terribili ci hanno portato episodi inenarrabili invadendo ogni spazio fisico e mentale e non lasciandoci un minuto di tregua. Anche le notti sono diventate agitate e con poco riposo. La preoccupazione per Israele si è fatta ogni giorno più intensa, angosciante e paurosa. Un po’ quello che sentiamo quando abbiamo una persona cara molto malata il cui futuro è a rischio.
In questo clima è maturato dentro di me l’impellente bisogno di partire. Volevo essere di aiuto per gli altri là e sentivo un gran bisogno di vedere con i miei occhi e di percepire con la mia mente quello che era accaduto. Sono partita ai primi di gennaio. I miei amici e i miei parenti che sono lì non mostravano molto entusiasmo alla mia idea di andare. Sentivo il loro bisogno di difendermi dalla dura realtà che loro vivevano. Inoltre, probabilmente avevano paura di doversi preoccupare anche per me, di prendermi in carico.
Da parte mia, immaginando il viaggio, mi sono trovata a pensarmi con loro nel momento in cui suonava la sirena e capivo le loro esitazioni. In Italia invece i miei amici per lo più dicevano che si trattava di un viaggio pericoloso che forse era meglio evitare.
La prima percezione chiara dell’isolamento e del pericolo l’ho avuta all’aeroporto di Fiumicino. Lì noi che partivamo per Tel Aviv, per rispondere alle domande di rito, siamo stati radunati in una stanza separata. L’abituale chiacchiericcio era sostituito da un silenzio teso e assordante, che è durato anche durante il volo. Questo silenzio è stato la colonna sonora del mio viaggio. Ha accompagnato tutta la mia permanenza in Israele. Il giorno dopo il mio arrivo, uscita per strada, ho visto che c’erano poche persone, molti negozi chiusi: una vita congelata in cui i volti dei passanti erano molto tesi e in attesa costante di qualcosa che doveva accadere. Mi ricordo che, in una serata fra amici, un rumore strano e improvviso ha fatto calare tra noi una cappa di ghiaccio. Aspettavamo un allarme che poi non c’è stato… La sensazione di paura era molto presente, condizionava ogni movimento, ogni programma.
L’idea di trovarsi in macchina mentre poteva suonare la sirena incuteva terrore. In tal caso avremmo dovuto fermarci ai lati della strada, sdraiarci e coprire la testa con le mani. Meglio dunque rimanere a casa accanto alla “stanza protetta”.
Quando ho preso il bus per andare verso Gerusalemme, eravamo in pochissimi. Anche qui un grande silenzio inquietante. Quando mi accoglie, l’amica che abita vicino ad Abu-Ghosh (una cittadina araba vicino a Gerusalemme) mi chiede: «Vuoi venire con me a far la spesa dal mio solito verduraio?»
Mi domando se andarci è sicuro, e tocco con mano il muro invisibile che viene eretto dentro Israele tutte le volte che il conflitto esplode. Mi riempio di grande tristezza e preoccupazione, ma ci vado. Il proprietario del negozio ci accoglie nella cittadina deserta ringraziando la mia amica di essere lì da lui. Parla del bisogno di fare la pace. Sento in quel momento di aver fatto la cosa giusta a vincere la paura.
Quando alcuni amici mi hanno invitato ad andare con loro a un concerto a Heichal HaTarbut a Tel Aviv, mi sono detta che la possibilità di pensare alla vita, alla musica in un momento così terribile fa parte della forza vitale di questa società, che cerca di andare avanti malgrado tutto, creando un’isola di normalità in mezzo agli orrori della guerra. La sala è pienissima. Prima del concerto un addetto alla sicurezza ci annuncia che, in caso di allarme, bisogna rimanere seduti, perché il teatro è sicuro. Subito dopo sento i tamburi e vedo tutti che si alzano. L’orchestra suona l’inno nazionale, tutti cantano con le lacrime agli occhi. Ho pensato che la normalità dentro la guerra fa parte della vita in Israele. Ma possiamo chiamarla una vita normale? In ebraico è stata perfino inventata un’espressione nuova, che esprime proprio questa situazione: shigrat-milchamà, “la vita normale in guerra”.
Un altro momento particolarmente commovente è stata per me la Qabbalat Shabbat nella “piazza dei rapiti” a Tel Aviv. Ogni venerdì sera i membri sfollati dei vari kibbutz della Striscia di Gaza si radunano con i familiari degli ostaggi e con altri cittadini per riproporre la stessa cerimonia che erano abituati a celebrare prima del 7 ottobre. In questa piazza c’è un presidio permanente che rappresenta il momento di incontro con la ferita sanguinante della comunità. Qui si canta e si parla sottovoce. L’atmosfera è quella di una veglia funebre, surreale e triste. È un monumento al disastro, la presenza fisica dell’indicibile in mezzo alla città.
Il giorno dopo, Shabbat, mi trovo a prendere un caffè in una piazza piena di bambini che giocano. Osservando le persone vedo che molti civili, magari anche con le loro famiglie, girano con il mitra addosso. Alcuni hanno delle pistole. La calma dello Shabbat è accompagnata dalla presenza della guerra. Sento un colpo al cuore. La sera del sabato mi trovo in piazza alla consueta manifestazione che ora chiede nuove elezioni, un modo diverso di affrontare il disastro. C’è poca gente e la sensazione è di una terribile stanchezza. I miei amici si guardano attorno e mi dicono: «Puoi immaginare che tutto quello che c’è qui ora, potrebbe non esserci più?»
Nel mio viaggio ho visto una società scossa, ferita, sanguinante ma non sconfitta dal male. È una società civile che ha scelto di agire per il bene comune in una realtà impossibile; questo fanno molte persone. Combattere per un futuro migliore non solo aiuta a sconfiggere impotenza e disperazione, ma significa scegliere di combattere il male con il bene.
Firenze, 29 febbraio 2024