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Agnes Heller, filosofa ungherese, ebrea, liberale e illuminista conscia delle antinomie dello stesso illuminismo diceva che non basta portare un ragazzo a visitare Auschwitz per suscitare l’empatia nei confronti delle vittime. Marek Edelman, il comandante in seconda della rivolta nel ghetto di Varsavia, spesso ricordava che la vittima, specie se una vittima percepita come inerme, talvolta, è oggetto di disprezzo. E chi si occupa di storia della memoria della Shoà in Israele sa quanto, nei primi anni dell’esistenza dello Stato, i reduci della Catastrofe europea raramente venivano ascoltati, perché considerati parte di una massa di persone che restò appunto inerme. Quei reduci venivano chiamati con appellativi che non voglio ripetere.
Quanto sopra serve ad avanzare un’ipotesi non facile da accettare. Eccola. Per molto tempo, abbiamo pensato e creduto che raccontare la Catastrofe, parlare di quel mondo alla rovescia, dove i valori erano diventati disvalori e dove furono ribaltati gli stessi dieci comandamenti – ‘aseret ha-dibberot – e si cercava invece di instaurare un regno di un radicale nichilismo, fosse un antidoto all’antisemitismo, un vaccino contro l’odio nei confronti degli ebrei.
Non è così. Il sentimento di empatia ha bisogno di essere coltivato, stimolato (in Israele lo hanno fatto soprattutto gli scrittori; i primi che mi vengono in mente sono il poeta Haim Gouri e David Grossman). Ma non è certo mia intenzione mettere in questione l’utilità pedagogica delle visite ad Auschwitz: quelle vanno continuate. Però non bastano quelle visite, non basta appunto il racconto delle vittime per far fronte all’antisemitismo.
A ottant’anni dalla Shoà, per le stesse leggi della natura, i testimoni vengono a mancare. E del resto lo spazio temporale di una memoria viva è quello di tre generazioni: dai nonni ai nipoti. Poi il ricordo diventa sbiadito. Tre generazioni sono, anno più anno meno, un’ottantina di anni, appunto.
Ora, una certa diffidenza (spesso non ostilità ma diffidenza) nei confronti degli ebrei è connaturata all’esperienza europea, occidentale, fin dai tempi antichi. Il francese Jean-Luc Nancy faceva risalire quel sentimento fino ai Greci: per loro era incomprensibile e “pericoloso” il concetto dell’eteronomia (le leggi che vengono da un’entità esterna e suprema) a scapito dell’autonomia (le leggi sono fatte dai cittadini della polis o dai tiranni ma sempre esseri umani); e si potrebbe continuare con tutti coloro che provavano fastidio per un popolo “diverso” e che professava una fede monoteista in un mondo politeista. E ancora, le stesse nozioni di Vecchio e Nuovo Testamento, implicano un’idea per cui la cristianità in qualche modo sostituisce l’ebraismo. Oggi, il mondo cattolico ha abbandonato la “Teologia della sostituzione», gli ebrei sono considerati “Fratelli maggiori”, e il dialogo interreligioso procede, nonostante qualche intoppo. Ma sto parlando di secoli di insegnamenti e predicazioni per cui l’ebreo è “il rimosso”.
E potrei continuare con l’antinomia della Modernità e dell’Illuminismo, individuata da Zygmunt Bauman, per cui la promessa dell’inclusione porta alla prassi dell’esclusione (dato che l’inclusione spesso non tollera la “diversità”). E ancora, nello stesso pensiero di sinistra è sempre presente una contraddizione fra le istanze di stampo “romantico” e “identitario”” (che nei regimi comunisti, negli anni Cinquanta e Sessanta si sono trasformate in istanze e campagne antisemite) e idee che invece tendono verso l’universalità degli umani; o, per semplificare fino all’estremo, fra il pensiero che trae le sue origini in Herder e quello che interpreta Marx. E perfino negli scritti di intellettuali ebrei assimilati o integrati ci sono elementi di un pensiero antisemita (non approfondirò qui).
Questo excursus serve a formulare una sola ipotesi, in fondo non complicata. L’antisemitismo, così come le manifestazioni di ostilità nei confronti degli ebrei, assomiglia a un fiume carsico. Ci siamo illusi che dopo la Shoà quel fiume si sarebbe seccato e che l’evoluzione del mondo dopo la Shoà sarebbe stata decisiva. Ripeto, non è stato così.
Di più: nessuna delle strategie degli ebrei per far fronte all’antisemitismo si è rivelata in grado di eliminarlo. Non quella dell’assimilazione, né il sionismo che postulava la “normalizzazione” della vita degli ebrei in Eretz Israel, né quelle delle sinistre rivoluzionarie ebraiche. E allora rassegnarci?
Mi viene in mente l’affaire Dreyfus. Da quella vicenda si possono trarre varie conclusioni. Secondo Theodor Herzl, era indispensabile costruire uno Stato, un luogo in cui gli ebrei avrebbero condotto una vita “sovrana”, “normale”, uno Stato laico (un concetto, quello della laicità, ostico a una parte del governo israeliano attuale). Molti democratici e socialisti non sionisti indicavano invece quanto l’affaire Dreyfus significasse la spaccatura fra una Francia reazionaria e una repubblicana, e quanto la Francia repubblicana, grazie all’impegno della pubblica opinione democratica, avesse sconfitto quella reazionaria (che a sua volta si prese la rivincita con il regime collaborazionista di Vichy). Strategie diverse, unite però da un’idea: non stare inermi, reagire. Aggiungo io: senza allarmismi, con lucidità, capacità di discernere e con la disponibilità a spiegare le proprie ragioni, nella fiducia che in fin dei conti, parlare, usare le armi della ragione, nonostante non elimini il problema, a medio termine paga (almeno nelle democrazie).
P.S. Nella costruzione della memoria della Shoà, oggi, si sta facendo sempre più forte la tendenza che cerca di indagare le vite e l’immaginario dei carnefici e dei loro complici. Ma è un tema da affrontare in un’altra occasione.