Leggi razziali, vita, morte in un romanzo breve di Valentina Supino

Ombre del Passato.Una storia di esclusioni è uscito nel 2023 presso Aska Edizioni di Firenze ed è stato presentato nel giardino della Sinagoga di Pisa il 10 settembre 2023, Giornata Europea della Cultura Ebraica, e a Firenze, il 3 ottobre seguente, presso la Fondazione Fratelli Rosselli. Se n’è parlato il 5 marzo 2024 a Parigi, alla Maison de l’Italie (Cité Universitaire). Attorno al tavolo, davanti a un bel pubblico, l’autrice Valentina Supino, Paola Bassani, presidente della Fondazione Giorgio Bassani, e chi scrive. Ha introdotto la direttrice della Maison de l’Italie Maria Chiara Prodi, mentre Valdo Spini, presidente della Fondazione Fratelli Rosselli, ha svolto un intervento a distanza. L’incontro è stato registrato e si può vedere sul sito italieendirect.italieaparis.net e al link https://www.youtube.com/watch?v=tb8kcUciLUs.
Il libro di Valentina Supino comprende tre immagini. La prima, in copertina, è la foto d’un angolo della Firenze medievale, presa nel 1944. Le torri e gli alti casamenti, gli archi, il vicolo quasi deserto con un furgone nel fondo, quali significati comunicano? Un senso di protezione, garantito dalle spesse mura, o un senso di reclusione e oppressione, per il peso degli alti casamenti sulle piccole figure umane? Oppure, come ha detto Paola Bassani, sono grandi e chiusi volumi architettonici incapaci di comunicare al proprio interno e l’uno con l’altro, che trasmettono un fondamentale senso di esclusione? Ed ecco le altre due immagini. In una bella foto posta all’inizio, a tutta pagina, una bambina piccola avanza, con aria impegnata e una manina alzata, tra un branco di galline, mentre alle sue spalle un ragazzo più grande la segue con aria protettiva. Lei è la voce narrante e per certi versi l’autrice da piccola (Valentina è del 1935), lui il personaggio chiamato Gigi, che «nel 1938 […] aveva […] tredici anni», e dunque era nato nel 1925, dieci anni prima di lei (pp. 17 e 20). La scena è situata nella campagna toscana, dove la bimba è in vacanza nella villa della nonna (come si capirà dopo, è di Bologna, ma nipote di un ebreo americano). Gigi sta in una casetta vicina, parte della grande proprietà che la sua famiglia possedeva ma ha perduto; il rapporto tra i due è la spina dorsale narrativa del libro. La terza immagine, che segue poco dopo, è piccola e tristemente famosa. Sullo sfondo un edificio in stile littorio con scritto «uNiversità», a sinistra due odiose caricature di giovani ebrei che con i libri sotto il braccio escono di scena, a destra la scritta «Gli ebrei esclusi dalla scuola italiana». 
Per Gigi l’espulsione dalla scuola «fu un grande dolore, una esclusione senza senso. Lui non sapeva neanche cosa significasse la parola “ebreo”, ma il primo risultato di quella politica scellerata fu di dare un senso di appartenenza a individui che ne erano privi, che si sentivano soltanto cittadini del mondo e liberi pensatori» (p. 17). I compagni di scuola l’abbandonano quasi tutti; solo il cattolico Ubaldo gli porta gli appunti delle lezioni e intreccia con lui, cresciuto in un mondo di laicismo ebraico, conversazioni su Dio e su Cristo, alimentate dalla lettura di Dostoevskij cui Gigi s’appassiona. La bambina cresce, senza poter frequentare in quanto ebrea le scuole pubbliche, e nei primi anni di guerra trascorre i mesi estivi nella campagna toscana con l’amico più grande. Gigi l’accompagna in lunghe passeggiate e le apre vasti orizzonti culturali con narrazioni fiabesche, che per lei sono un momento di formazione e per lui un modo di esorcizzare la «gravità della situazione politica». Con l’armistizio e l’occupazione tedesca i due amici riparano a Firenze città. La protagonista e la famiglia trovano rifugio presso «amici fedeli, antifascisti accaniti» che abitano nel «centro di Firenze, in una stradina stretta e lunga», come quella che si vede in copertina, o come la via Faenza ove aveva trovato salvezza, a quei tempi, il mio compianto amico e chaver Marcello Buiatti. Gigi, la sorella e la madre Luisa si rifugiano «in una pensione la cui padrona aveva deciso di prestare aiuto ai perseguitati» e che per questo la pagherà cara: lei, Gigi e la sorella saranno arrestati. Se la caveranno grazie a due emarginati che aiutano gli emarginati: un questurino antifascista, che li fa passare per delinquenti comuni, presto liberati, e una prostituta che nasconde Gigi nella sua casa di appuntamenti, finché lui, rifiutando di unirsi alla Resistenza, riparerà in Svizzera nel maggio 1944 (pp. 26-29).
Il trauma delle Leggi razziali segnerà per sempre la vita di Gigi, e a quello seguiranno altri momenti di esclusione. In Svizzera fa umili lavori ed è trattato come un paria; poi, non avendo partecipato alla Resistenza, al momento della ricostruzione sarà di nuovo emarginato. Eppure Gigi ha grandi risorse personali e raggiunge il successo a Milano, come editore, guadagnandosi un alto rango sociale. Questo però favorisce una sua inclinazione megalomane, forse una rivalsa rispetto alle esclusioni e discriminazioni subite. Volendo tornare in Toscana, cede la guida effettiva della casa editrice a Giorgio Ottolenghi, un vecchio «compagno di ginnasio che poi aveva ritrovato in Svizzera e gli era stato amico in quei tempi difficili»: questo falso amico ebreo lo inganna e depreda, sinché Gigi deve dichiarare fallimento e scivola su una china che lo porterà al suicidio.

Senza entrare in particolari che toglierebbero il piacere della lettura, si coglie in questa narrazione un gioco sapiente tra vari elementi. Accanto alla memoria personale, c’è l’esperienza professionale dell’autrice, psichiatra e psicanalista. La ferita delle Leggi razziali, ci dice nella Premessa, «sembra rientrare nell’ordine dopo la Liberazione ma […] rimane e sanguinerà fino alla prossima esclusione, dove forse il darsi la morte vuole anche dire soccombere al desiderio» omicida dei nazifascisti. Il valore di questa prospettiva sugli effetti delle Leggi razziali è stato sottolineato nel dibattito parigino; del resto a un grande psichiatra, Silvano Arieti, si deve il primo libro (The Parnas, 1979) sulla strage nazista perpetrata a Pisa, il primo agosto 1944, nella casa Pardo Roques in via S. Andrea, dirimpetto alla casa che lo stesso Arieti aveva abitato prima di lasciare l’Italia nel 1939.
E c’è pure, come l’autrice non nasconde, la memoria letteraria. Ombre del Passato presenta una storia analoga a quella degli Occhiali d’oro di Giorgio Bassani, dove il medico Athos Fadigati, già vilipeso ed emarginato dalla borghesia ferrarese per le sue propensioni omosessuali, è ingannato e depredato dal giovane Eraldo Deliliers e giunge infine al suicidio. Il personaggio che narra la storia, un giovane ebreo studente di Lettere, è tra i pochi che comprende Fadigati, dato il profondo nesso tra l’emarginazione omofobica che colpisce il medico e quella razzista che colpisce lui stesso. Ma si guardi anche l’inizio del romanzo di Supino: durante un viaggio in treno «seguivo il dolce timbro» della voce di un giovane, «ma nella mia memoria cominciavano ad affiorare le immagini sepolte da tanto tempo», che la riportano «ai lontani anni della guerra, delle leggi razziali dell’occupazione tedesca di Firenze». Con movimento analogo Bassani aveva aperto Il giardino dei Finzi-Contini: «nella quiete e nel torpore» di un viaggio in macchina, «io riandavo con la memoria agli anni della mia prima giovinezza, e a Ferrara, e al cimitero ebraico posto in fondo a via Montebello».
Qui però il discorso non si chiude ma si apre. Il personaggio che in Ombre del Passato dice «io» è una donna, non solo testimone e giudice degli eventi ma a pieno titolo protagonista. La bambina cresce e, grazie all’agiato ambiente ebraico di provenienza, può formarsi in Inghilterra, fare soggiorni negli Stati Uniti, frequentare a Bologna l’Università e divenire una storica dell’arte (come lo fu il nonno di Valentina, Igino Benvenuto Supino). Conosce delusioni e successi, amori e abbandoni, ma è una personalità in sviluppo, dotata di «capacità di seduzione», e gli abbandoni non li subisce ma li determina. Insomma è una donna insieme fragile e forte (come lo sono Elisa Rosselli e Camilla Benaim le cui storie, con quella di Valentina, compongono Donne in guerra scrivono. Generazioni a confronto tra persecuzioni razziali e Resistenza (1943-1944), Aska 2018). Le ferite e le contraddizioni ci sono state, eppure, dice la narratrice, «in età più matura […] ho potuto conciliare i miei lati contraddittori […]. Togliersi le rughe vuol dire cancellare una parte della nostra storia mentre invece abbiamo bisogno di tutte le nostre esperienze passate per affrontare il futuro» (p. 55). Poco più avanti, continuando l’analisi introspettiva, dice di esser cambiata nel corso del tempo ma, se pure le rughe solcano il suo volto, l’accumulo esperienziale e memoriale delle «parti di [s]e stessa» le dà «un senso di pienezza» (p. 73). Sarà davvero così oppure, come diceva nel dibattito parigino Paola Bassani, quel «groviglio di antenne di televisione», quella «gigantesca tela di ragno» che segna le prime righe del libro, quando il treno entra in Roma, avvolge non solo Gigi ma anche lei e gli altri personaggi colpiti dalle Leggi razziali e dal fascismo?Certo, un protagonismo dell’io narrante è indicato anche dal fatto che quella lei, diversamente dal lui degli Occhiali d’oro, non concede quasi mai la parola agli altri personaggi ma gestisce direttamente, nel suo discorso in prima persona, ogni passaggio narrativo. Poche, se ho ben visto, le eccezioni. Gigi prende la parola quando la protagonista gli dice di essere innamorata di un uomo, al punto di poterlo anche sposare: «Molto, molto pericoloso –  esclama Gigi – stai precipitando in un burrone» (p. 67), e qui, accanto al riflesso della negativa esperienza coniugale di Gigi, sembra affiorare un moto di gelosia (ma quando i due davvero si sposeranno, gli regalerà una ceramica di Picasso). E un nuovo intervento in discorso diretto di Gigi si ha più avanti (pp. 80-81), quando in una nebbiosa sera milanese egli esclama «che tristezza questa città! Penso spesso alle nostre case nella campagna toscana, come erano belle!» e fa seguire una sua poesia, l’unica nel testo, le cui ultime righe suonano «mi rivedo bambino / giocare in quell’Eden / ignaro della sua condanna a morte». 
Condanna a morte di quell’Eden, ma anche di quell’uomo. E qui emerge un’altra capitale differenza tra quel ragazzo e quella bambina di una volta. Lui muore ingoiando «d’un colpo» tutti i sonniferi e gli antidepressivi prescrittigli dal medico quando ormai era in fondo alla china. Anche lei, ancor giovane, accumula le compresse, come estrema risorsa per uscire da un’eventuale situazione disperata, ma in questo caso si tratta di una sorta di familiarizzazione col senso di morte, che può aiutare addirittura ad andare avanti («era il loro possesso che mi tranquillizzava e mi permetteva di godere delle belle cose che l’esistenza allora mi offriva»: p. 57). E infatti, a un certo punto, dopo aver attentamente messo in fila e guardato le sue compresse, si alza e va a ballare.

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