Opinioni sul conflitto

Edvard Munch, Sera sul viale Karl Johan. Olio su tela, 1892. Museo d’arte, Bergen (credit Wikipedia.org)

La drammatica situazione di guerra in cui si trova Israele è oggetto di valutazioni disparate e spesso discordi. Dedichiamo perciò, in questo numero, una sezione specifica alle varie opinioni che ci sono pervenute, in forme diverse (lettere, articoli) e in tempi diversi, sulla questione. Eccone una (NdR).

Gli accadimenti del 7 ottobre ci hanno lasciati disorientati, incapaci di comprendere a fondo la loro gravità; poi, muti e incerti su ogni passo. Ha senso condannare l’inimmaginabile? Ha senso parlare di ciò che non si poteva neanche pensare? Come possiamo noi, da qui, dalle nostre case sicure e accoglienti, con le nostre vite costellate da routine e piccoli e grandi problemi quotidiani da risolvere, in un luogo che consideravamo sicuro, comprendere e consolare chi si è visto crollare tutto il proprio mondo, chi ha partecipato ogni giorno a più funerali, chi non ha potuto fare il funerale al proprio caro perché non c’è più nulla di lui? Come possiamo essere di aiuto a chi non respira più ossigeno nell’attesa disperata e angosciosa del ritorno di familiari e amici da mani disumane e sporche di sangue?
I giorni sono passati, e la nebbia dello shock si è parzialmente diradata; così abbiamo fatto ciò che pensavamo potesse essere di aiuto: abbiamo condiviso e partecipato a campagne di raccolta fondi, abbiamo aderito attivamente alle campagne “Take them home”, abbiamo cercato di far sentire ai nostri familiari israeliani la nostra vicinanza, pur non sentendoci assolutamente in grado di farlo, e abbiamo incominciato a intuire che il 7 ottobre sarebbe stato il grilletto che avrebbe dato fuoco all’enorme quantità di polvere da sparo accumulatasi in Israele e un po’ ovunque, dando il via a una serie di esplosioni a cascata, una dopo l’altra. 
Sono passati oltre sette mesi dal 7 ottobre, e gli obiettivi che il Governo israeliano si è dato, il ritorno degli ostaggi e l’eliminazione di Hamas, o almeno la sua inabilitazione, appaiono ancora lontani. E, parallelamente alla guerra che si è scatenata tra Israele e Hamas, ne è iniziata un’altra che non uccide ma ugualmente violenta: la guerra di comunicazione.
Sembra che Hamas si sia lungamente preparata negli anni a queste battaglie comunicative, non solo educando i piccoli palestinesi e le loro famiglie all’odio e al desiderio di eliminare il nemico israeliano, ma anche educando o, meglio, iniettando nelle teste degli occidentali la visione dicotomizzata e senza spazio per alcun dubbio di palestinesi-vittime inermi e sfruttate e di ebrei-potenti persecutori. Noi lo sapevamo che Hamas lavorava a questa visione artefatta della realtà, lo sapevamo ma quello che ci ha colto del tutto impreparati è stata l’efficacia di questo lavoro. Ci sentiamo circondati da urlatori che chiedono la fine dello Stato di Israele, che colpevolizzano gli ebrei di tutto il mondo di tutti i mali possibili, ci sentiamo minacciati nelle nostre esistenze e non riusciamo a sentire voci amiche.

Questo tam-tam invade ogni spazio: istituzioni pubbliche, ambienti universitari e scolastici, concorsi canori, piazze che attraversiamo ogni giorno, feste in cui crediamo fermamente perché parte della nostra identità nazionale, muri delle nostre città… ovunque e continuamente. E questo è il grande successo di Hamas: farci sentire soli e non capiti. Amplificare il rumore di pochi e manipolare abilmente i media per farlo sembrare enorme e pervasivo. Risvegliarci antichi traumi e paure, memorie transgenerazionali nascoste sotto strati di vite vissute, ma sempre lì.
Gli studi psicologici sui traumi ce lo dicono: i traumi causati dagli esseri umani come gli abusi, le persecuzioni e le guerre lasciano pesanti ripercussioni fisiche e psicologiche non solo nella generazione che li vive direttamente ma anche nelle generazioni successive. Questo è tanto più vero quando il trauma è causato da un evento non comprensibile, abnorme e difficilmente elaborabile. Noi, figli e nipoti della generazione vittima della Shoà, abbiamo ricevuto una pesantissima eredità, qualche volta trasmessa attraverso i racconti, qualche volta attraverso atti mancati, reazioni irrazionali, evitamenti e qualche volta attraverso il silenzio. Ma la memoria dello shock collettivo, attraverso parole o silenzi, è stata trasmessa e tutto ciò che è venuto dal 7 ottobre in poi ce l’ha risvegliata. Notti insonni, incubi, sintomi e dolori psicosomatici, dipendenza e ricorso compulsivo alle notizie, ansia e paura ci segnalano il riemergere di esperienze che non abbiamo vissuto sulla nostra pelle ma ricevuto e depositate nel nostro inconscio collettivo.
Abbiamo paura anche qui, nella diaspora, ci sembra che il passato giochi a tornare e ci sentiamo profondamente soli. Eppure, in molti stanno riuscendo, non senza sforzo, a trasformare questi vissuti in azioni per gli altri. C’è chi si dedica con capacità e cultura, rimanendo nell’ombra, a fare contro-informazione, chi aderisce a progetti di volontariato, per la Comunità e per Israele, chi a ricercare i fondi ancora una volta per Israele ma anche per la Comunità, chi riempie i vuoti di informazione e conoscenza di adulti e ragazzi, chi lavora per rinforzare i legami e la comunicazione tra le generazioni. Questi “molti” danno la forza a ciascuno di noi, ci permettono di accedere a quella resilienza collettiva per cui il nostro popolo è conosciuto e incentivano la nostra personale resilienza. E l’attivazione di risorse positive spese per sé e per gli altri ci permetterà di riconoscere e ascoltare anche voci amiche esterne, di guardare oltre quei gruppetti, certo ben organizzati, di urlatori e indossatori di kefiah, riuscendo a scorgere di non essere né soli né indifesi.

20 maggio 2024

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