di Daniel Carpi (a cura di Giacomo Corazzol, introduzione di Alberto Cavaglion). Giuntina
recensione di Marta Baiardi
Il titolo che mi era venuto in mente, per una recensione a questo libro, era: “In cammino per Eretz Israel. Autoritratto di un sionista da giovane”.
Lo storico dell’ebraismo Daniel Carpi (1926-2005), nato a Milano da una famiglia originaria di Cento, emigrato nel marzo 1945 in Eretz Israel, nel 1999 a più di cinquant’anni di distanza dai fatti narrati, pubblicava in ebraico la sua esperienza delle persecuzioni dal 1938 al 1945. Con grande ritardo, riparando una colpevole disattenzione verso l’autore, queste memorie sono state ora tradotte (ed egregiamente curate) dallo studioso di ebraistica Giacomo Corazzol. Il titolo riprende le esortazioni di Mosè al suo popolo contenute nel Deuteronomio, straordinariamente insistenti sul principio dinamico del rispetto dell’alleanza: quel “camminare per la via” – ovvero vivere conformandosi al volere dell’Eterno – che Carpi sceglie come implicita ed emblematica autopresentazione.
Il libro si apre con un pianto dirotto dell’autore dodicenne: è il 1938 e le leggi “razziali” gli impongono l’espulsione dalla scuola. Daniel non è uno studente modello ma il senso di umiliazione e l’offesa subita dai «luridi fascisti» sono brucianti ancora a distanza di tanti decenni, tanto più perché la tradizione familiare da cui proveniva – il sionismo di destra del padre Leone – non era stata ostile al fascismo. Né si capacita – il sionista Carpi – di come i suoi coetanei ebrei, una volta «sbollita la rabbia», abbiano potuto continuare nel dopoguerra a rimanere in Italia. Nel racconto la linea di demarcazione fra «noi sionisti» ed ebrei assimilati «sradicati da tutto» (p. 55) è sempre nettissima: la voce del sionista di vecchia data si proietta nel passato, forse ancor più nitida di quanto fosse stata in realtà allora. D’altronde sappiamo bene che è il presente, il tempo in cui si scrive, a orientare i ricordi. Nei testi autonarrativi agisce sempre un effetto di rifrazione, di cui peraltro lo storico Carpi è ben consapevole: le sue memorie, dice, sono «il mio sguardo odierno su quanto accadde allora» (p. 33). Nell’Epilogo precisa ancora la sua poetica: non per dar lezioni ha scritto, ma solo perché aveva «voglia di raccontare», e farlo «sine ira, e senz’altra morale che tutto ciò è stato» (p. 182).
Assai vivace e ariosa, decisamente picaresca, si presenta la prima parte del libro con la rievocazione del viaggio «per sentieri montuosi», che il giovane Daniel intraprende da Signa verso sud al di là della linea Gustav, per fuggire dall’Italia nazifascista. Riuscirà infine ad attraversare il fronte e a raggiungere gli Alleati, ma soprattutto potrà incontrare i soldati di Eretz Israel, motivazione determinante per partire. In questo percorso non mancano le avventure, alcune pericolose ma tutte finite bene e contemplate dal Daniel anziano con intensa e quasi divertita partecipazione. Memorabile la marcia attraverso una serie di gallerie sotto la Maiella per evitare i ricognitori tedeschi; e altrettanto avventurosa la traversata a cavallo del Sangro nel gelido novembre 1943 fino al paese di Carovilli, dove finalmente compaiono i soldati canadesi, primo avamposto dell’esercito amico.
In questo «cammino verso la libertà» (p. 99), il compagno di viaggio di Daniel è suo padre, Leone Carpi (Roma 1887-Gerusalemme 1964), anche lui «scappaticcio»: così i pastori abruzzesi, peraltro assai prodighi di aiuti, definiscono viandanti e fuggiaschi. Avvocato, decorato nella Grande Guerra, Leone Carpi aveva aderito tra i primi in Italia al sionismo revisionista di Vladimir Jabotinsky, il padre spirituale della destra sionista ultranazionalista. Dal 1930 al 1939 fondò e diresse la rivista del movimento revisionista L’idea sionistica, proclamandosi antisocialista e non alieno da un’empatica ammirazione verso il fascismo. Di Leone Carpi qui, come osserva Alberto Cavaglion nella sua introduzione, troviamo un’autobiografia «per interposta persona, mediata dallo sguardo del figlio» (p. 9). Affetto e stima per «il papà» si respirano a ogni pagina, a partire da un ebraismo intensamente condiviso nel Regno del Sud, fatto di incontri, preghiere e riti. Intenso è il ricordo di un seder pasquale a Salerno celebrato con centinaia di militari.
In spirito di fedeltà agli ideali del padre, il curioso Daniel ripercorre alcune tappe della sua attività politica: così passa due giorni a Bari con Enzo Sereni, poche settimane prima della sua missione fatale. Leone Carpi e Sereni erano entrambi sionisti ma su fronti contrastanti. Tuttavia quel che a Daniel interessa qui è soprattutto attestare la stima di cui suo padre godeva presso l’avversario. Un altro omaggio paterno è la visita al campo di Ferramonti per incontrare i sopravvissuti al naufragio del Pentcho per cui Leone si era tanto prodigato.
Tuttavia alla fine del viaggio, tra padre e figlio le cose sono molto cambiate. Con un pragmatismo alieno da ogni psicologismo, l’autore registra questo distacco: «ci accadde più volte di accorgerci che vivevamo in due mondi separati e che il figlio aveva preso un cammino indipendente.» (pp. 157-158). Non solo Leone appare a Daniel invecchiato e fragile, ma in qualche modo il cammino del giovane, al di là del mero salvarsi, si è rivelato innanzitutto una quête: una progressiva ricerca di senso che approda inevitabilmente passo dopo passo, incontro dopo incontro, malgrado fallimenti e incertezze, verso il “suo” sionismo, non solo teorico, ma ben concreto: una nuova patria, nuovi orizzonti, una nuova vita in Eretz Israel. L’ultima tappa del “cammino” di Daniel fu a Firenze, dove nell’inverno 1945, in un edificio di fronte al Tempio Maggiore, sotto la guida di Eliyyahu Lubisky, soldato della Brigata ebraica, fondò con altri giovani una Hakhsharà cittadina. Infine a guerra ancora in corso, partiva per la Terra Promessa, e il 28 marzo 1945 approdava a Haifa.
In controtendenza con la memorialistica dei “salvati”, in questo libro la Shoà non è centrale: non è né l’agnizione dominante della narrazione, né un determinante spartiacque tra un prima e un dopo. Compare certo, ma per così dire di sghimbescio, per accenni: nel 1942 nei racconti dei profughi croati; nella paura per madre e sorelle rimaste al Nord; poi nel ricordo dolente di amici perduti; infine in un passo straordinariamente empatico in cui l’autore descrive i parenti dei deportati romani che vagano attoniti «con passo da sonnambuli», perseguitati dall’«immagine straziante dei posti lasciati vuoti», presentendo nondimeno che nessun ritorno dei loro cari ci sarà (p. 160).
Infine davvero meritevole è il lavoro filologico del curatore Corazzol, auspicabile modello per uscire dalla frequente sciatteria che spesso affligge le edizioni memorialistiche. La Nota bio-bibliografica inquadra sinteticamente autore e temi del libro; solide e indispensabili le note al testo. Ma il vero punto di forza sono le quattro Appendici, che propongono i documenti originali di alcuni spunti presenti nel testo di Carpi. Ne risulta un arricchimento prospettico affascinante e talvolta persino un controcanto, ovvero un’indiretta ma rigorosa correzione a qualche troppo indulgente autobiografismo dell’autore.