A proposito del pidyon shevuyim, o riscatto degli ostaggi

Maimonide insegna la “misura degli uomini” in relazione all’universo. Manoscritto del XIV secolo (credit Wikipedia.org)

Rispetto a quanto è accaduto e sta ancora accadendo in Eretz Israel, si parla spesso del pidyon shevuyim, il principio ‒ vincolante nell’ebraismo diasporico ‒ che un ebreo prigioniero, schiavo o ostaggio deve essere liberato/riscattato ad ogni costo. Ci piacerebbe saperne di più.

Per affrontare questo argomento bisogna prima di tutto chiarire un punto fondamentale: quando i nostri Maestri nel Talmud, ma anche nel Medioevo, persino fino a cent’anni fa, discutevano di pidyon shevuyim intendevano una cosa molto diversa da ciò di cui ci troviamo a preoccuparci oggi. Tutto nasce infatti in un contesto in cui è ancora presente (anche presso gli ebrei) la pratica della schiavitù. Il rapimento era quindi funzionale alla messa in commercio del rapito da parte del predone per ottenere nel più breve tempo possibile un guadagno economico dalla compravendita dello schiavo a terzi. 

Maimonide nel Mishné Torà (Hilkhot mattanot ‘aniyim 8:10) mette in chiaro che il riscatto di un prigioniero è una mitzwà così importante che, se ci si trova a doverla mettere in pratica, questa passa in primo piano rispetto a tutte le altre, persino alla tzedaqà. Non solo, ma dice che per un prigioniero bisogna essere disposti a pagare qualunque somma. In passato, infatti, anche in Italia e persino a Firenze era consuetudine avere dei fondi dedicati proprio al riscatto dei nostri fratelli rapiti. 

Già ai tempi della Mishnà però i nostri maestri avevano in realtà posto delle regole in materia. In particolare leggiamo in Ghittin 4,6 che è permesso riscattare uno schiavo ebreo esclusivamente con una cifra che non superi il suo valore di mercato. La motivazione introduce uno degli elementi fondamentali in questa discussione, ossia le conseguenze del nostro riscatto. Se pagassimo una cifra “fuori mercato” i predoni in futuro sarebbero sicuramente più propensi ad andare a caccia esclusivamente di ebrei perché saprebbero di poter fare affari migliori rispetto alla vendita di schiavi gentili. 

Allora perché il Maimonide dice che è permesso fare tutto per liberare uno schiavo ebreo? Lui sostiene che qualunque schiavo si trova in realtà in pericolo di vita. E come sappiamo, quando si parla di pericolo di vita quasi tutte le mitzwot possono essere trascurate.

A questa posizione, però, altri maestri pongono una decisa obiezione: questo può forse valere per un privato, ma una istituzione come una Comunità ebraica, oppure uno Stato ebraico deve avere sicuramente altri capitoli di spesa, oltre a quello per la salvezza dei propri membri. Non possiamo pensare che lo Stato di Israele, ad esempio, destini il 100% del suo budget alla sanità pubblica, permettendo così di salvare molte più vite di quanto si riesca a fare adesso. È evidente che si tratta di una spesa importante e fondamentale, ma non può essere l’unica. L’istruzione, la sicurezza, i trasporti sono tutti servizi fondamentali e che non possono essere accantonati, in linea di principio, di fronte al concetto di dover salvare ad ogni costo una vita umana in più. 

Nel Talmud (Ghittin 58a) ci viene raccontato che rabbì Yehoshua‘ ben Chananyà venne a sapere che a Roma un prodigioso bambino studioso di Torà era stato rapito ed era in vendita al mercato degli schiavi. Si recò sul posto e quando lo individuò recitò ad alta voce la metà di un versetto del TaNaKh e quello lo completò, senza aspettare alcun invito a farlo, dimostrando di conoscere tutte le Sacre Scritture a memoria. Rabbi Yehoshua‘ affermò quindi che quel bambino sarebbe certamente diventato un grande rabbino e che quindi avrebbe pagato lui stesso qualunque cifra per liberarlo. Questa baraità sembra andare in contrasto con la mishnà da cui eravamo partiti. Potremmo quindi ipotizzare che la regola del pagare gli schiavi secondo il valore di mercato potrebbe avere delle eccezioni nel caso si tratti di personaggi di rilievo della nostra comunità. Famosa però è la storia di rabbi Meir di Rothenburg, che nel 1286 rifiutò di farsi riscattare dalla sua comunità e morì in prigionia proprio per evitare che la volta successiva i potenti locali iniziassero a prendere di mira i leader e a chiedere riscatti sempre più alti.

C’è poi un secondo caso, che ci avvicina concettualmente a quello che oggi noi intendiamo con i rapimenti di ostaggi. In Ketubbot 52b noi leggiamo che, se un uomo è entrato in possesso di una grande fortuna per via della dote della sua moglie benestante, se questa viene rapita lui ha il dovere di riscattarla anche oltre il suo valore di mercato. La motivazione deriva dal tipo di legame che intercorre tra i due. Essendo sposati e avendo quindi sottoscritto una ketubbà nella quale l’uomo si impegna al mantenimento del benessere della moglie, è sottointeso che il marito debba impegnarsi ad onorare il contratto e spendere quindi anche tutta la dote solo per liberarla. La differenza sostanziale è quindi dovuta alla presenza di un contratto che vincola una parte al salvataggio dell’altra. Un contratto concreto che risulta ben più significativo di un generico patto sociale, ad esempio tra Stato e generici cittadini. Questo caso, secondo molti maestri, rappresenta la chiave di lettura per quanto riguarda l’agire ebraico di fronte alla liberazione di soldati presi in ostaggio. Il concetto è che lo Stato, nel mettere in pericolo la vita di un suo soldato, si impegna a coprire qualsiasi spesa in caso di danni nei suoi confronti, siano questi fisici o psicologici, o che si tratti di dover addirittura risarcire la sua famiglia nel caso questi venga a mancare in battaglia. 

Ci sono però due problemi: questo concetto può appunto valere per un soldato, che è in un certo senso un dipendente dello Stato, ma di certo non per un civile, visti i motivi già citati. In secondo luogo, oggi i rapimenti ‒ ed in particolare i rapimenti compiuti dai terroristi a cui stiamo assistendo  ‒ non hanno più lo scopo di porre in schiavitù i rapiti e molto raramente i rapitori sono interessati a rilasciarli dietro un pagamento in denaro. Le richieste dei sequestratori riguardano invece spesso la liberazione di loro commilitoni che a nostra volta abbiamo incarcerato, oppure mirano a ottenere dei vantaggi militari, magari imponendo la ritirata da un determinato luogo da parte del nostro esercito. Torniamo quindi qui al problema iniziale della conseguenza del riscatto degli ostaggi. Il problema non è più solo l’alzarsi dei prezzi degli schiavi ebrei o l’aumento dei rapimenti di ebrei perché sono più remunerativi, ma diventa anche un problema di ordine pubblico: se per liberare un ostaggio è richiesto di liberare decine o centinaia di terroristi che molto probabilmente riprenderanno subito la loro attività terroristica, è evidente che si pone il problema morale di trovarsi di fronte ad una situazione in cui si agisce per salvare una vita con la possibilità che in futuro la perdano molte più persone in conseguenza del riscatto pagato. Con queste motivazioni alcune autorità rabbiniche contemporanee sono arrivate a proporre che non si dovrebbe trattare per la liberazione di ostaggi in tempi di guerra, ma solo in tempi di pace (o almeno di tregua). Il tema è ovviamente ancora aperto e complicato e non c’è una risposta univoca sul come comportarsi di fronte a questi nuovi tipi di rapimenti. La speranza ovviamente è che il nostro impegno nello studio della Torà, anche solo tramite questo piccolo articolo possano darci il merito di vedere presto i nostri fratelli liberi da ogni guerra ed oppressione. 

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