Chi sono gli ebrei di Libia?

Sinagoga Slat Abn Shaif di Zliten, prima metà del XX secolo (credit Wikipedia.org). 

Gli ebrei con radici dalla Libia costituiscono oggi circa un quinto dell’ebraismo italiano, per quanto, per vari motivi, non ci siano statistiche accurate. Molti di loro occupano cariche di rilievo (e non solo nelle Comunità ebraiche), e spiccano per il loro attivismo. Ma quali sono le loro origini, e perché il loro assorbimento in Italia è stato molto più facile di altri (come gli ebrei dall’Iran o dal Libano)?

Ci sono tracce di ebrei nell’area che è oggi la Libia alcuni secoli prima dell’era volgare, specialmente in Cirenaica, che dopo la distruzione del Secondo Tempio fu uno dei centri della tragicamente fallita Rivolta delle diaspore (Tumultus Iudaicus, 115-117). Ebrei rimasero nel Nord Africa e convissero con popolazioni locali per secoli, subendo occupazioni da parte dei Vandali, dei Bizantini, degli Arabi, degli Spagnoli, dei Cavalieri di Malta e degli Ottomani, soffrendo persecuzioni di vario tipo ma mantenendo la loro identità e anche relazioni sporadiche con ebrei in altre parti del mondo. Solo a metà del XVI secolo vennero in contatto con l’ebraismo sefaradita, quando il chakham Shimon Labi, espulso dalla Spagna e per strada dal Marocco verso la Terra d’Israele, giunse a Tripoli nel 1549, trovò la comunità in condizioni disastrose, e decise di fermarsi lì per dare loro una guida spirituale. Fu lui a portare agli ebrei locali le tradizioni sefaradite.

La direzione del Circolo Maccabi, Tripoli, 1929. Terzo da destra è il nonno materno dell’autore, Eugenio Nahum.

E c’è evidenza che dalla fine del XVI secolo discendenti di ebrei spagnoli espulsi dall’Europa cristiana si stabilirono a Tripoli. Ma è bene ricordare che non tutti gli ebrei di Libia hanno origini nella penisola iberica. Differenze culturali ed economiche sopravvissero a lungo. La maggioranza degli ebrei viveva a Tripoli, ma molti erano anche a Bengasi e –particolarmente la popolazione più antica – in villaggi all’interno (Zuara, Zanzur, Amrus, Kussabat, Garian, Zliten, Homs, Yefren, Taruna, Misurata, Tagiura, Sirte, Bani Walid). L’occupazione italiana iniziò nell’ottobre del 1911. Ma influenze italiane erano in corso già da decenni. Le potenze europee avevano allargato il commercio con la Libia ottomana. Sono documentate relazioni di commercianti ebrei con l’Italia, specialmente con Livorno.

Il pubblico alla rappresentazione di Giuseppe e i suoi fratelli. Tripoli, anni ’30.

Nell’Impero ottomano vigeva il regime di Capitolazioni, un complesso di privilegi in favore dei cittadini degli Stati occidentali, che garantivano l’integrità della persona e della proprietà, l’inviolabilità del domicilio, la libertà di religione e di commercio, l’esenzione dalle imposte personali e soprattutto l’immunità dalla giurisdizione locale. Per questo molti ebrei benestanti fecero di tutto per ottenere una cittadinanza europea, a volte attraverso relazioni commerciali e a volte anche pagando. Alcuni ottennero la cittadinanza italiana. La mia nonna paterna Ida e il mio nonno materno Eugenio, della famiglia Nahum, che erano sorella e fratello, ottennero la cittadinanza olandese, per ragioni che non sono mai riuscito ad appurare. Secondo una tradizione familiare, la loro nonna paterna si chiamava Fortunée, o Mazzala, ed era imparentata con Sir Moses Montefiore, che era nato a Livorno, emigrò in Inghilterra da bambino, accumulò grandi ricchezze, dedicò la sua vita all’assistenza degli ebrei in tutto il mondo, e in seguito ricevette il titolo nobiliare dalla regina Vittoria. Montefiore aveva relazioni con gli ebrei del Nord Africa, e pare che a Ramsgate in Inghilterra (dove è sepolto insieme alla moglie Judith) si tenessero corsi per rabbini nordafricani.Tripoli iniziò ad avere una popolazione cosmopolita. Il Talmud Torà di Tripoli godeva di prestigio in tutto il Nord Africa. A Tripoli c’erano piccole scuole in lingua italiana, attivate da ordini religiosi cattolici (nonna Ida frequentò le elementari delle suore, e raccontava che la trattarono con molto rispetto). Ma alcuni “padri di famiglia” ebrei si chiesero come provvedere ai figli un’educazione più moderna di quella che potevano ottenere nelle scuole tradizionali nella Città Vecchia (la “Hara”). Perciò presero l’iniziativa di creare una scuola in lingua italiana a spese loro. Si rivolsero a Giannetto Paggi di Pitigliano, che arrivò a Tripoli con la famiglia nel 1876, come impiegato del Ministero Italiano per l’Educazione, e fondò una scuola italiana per ragazzi. Nel 1878 fu fondata anche una scuola parallela per ragazze. Nel 1912 la scuola fu rinominata Pietro Verri, e mio padre Lillo, nato nel 1911, frequentò lì le elementari.Anche filiali del Banco di Roma furono aperte a Tripoli e a Bengasi prima della conquista italiana, e gran parte degli impiegati e dei clienti furono ebrei.

L’occupazione italiana fu accolta con entusiasmo dalla popolazione ebraica, che visse un periodo di sviluppo, protetta dai soprusi della popolazione locale. Altre scuole italiane furono aperte dal governo coloniale, e molti dei giovani ebrei di Tripoli le frequentarono. Le Leggi razziali del 1938 furono accolte con costernazione dagli ebrei locali, che avevano fatto di tutto per dimostrare la loro fedeltà al governo. Anche mia madre Nuccia venne espulsa dalla scuola italiana, all’età di dieci anni. Chi continuò a studiare fu costretto ad accontentarsi di strutture alternative come Alliance, dove mio padre insegnò matematica ed arabo. 
La guerra mondiale sconvolse anche il piccolo mondo degli ebrei della Libia. Molti (come la mia famiglia) si salvarono rifugiandosi in villaggi all’interno del Paese, protetti (spesso a pagamento) dalla popolazione araba. Alcuni furono internati in Campi di lavoro amministrati dagli italiani (come Giado e Sidi Azzaz), dove centinaia perirono a causa delle condizioni di vita. Alcuni furono catturati dai tedeschi, e inviati a Bergen Belsen e anche ad Auschwitz.

Incontro sulla portaerei americana Kearsarge al largo del porto di Tripoli il 25 giugno 1948, in seguito al pogrom del 1948. Il primo da sinistra è Lillo Arbib.

L’occupazione britannica della Libia all’inizio del 1943 portò pace e speranza, che purtroppo furono per gli ebrei di breve durata. Nel novembre del 1945 scoppiò un pogrom arabo contro gli ebrei, che provocò decine di vittime. I soldati inglesi fecero molto poco per reprimerlo, apparentemente per provare che la popolazione locale non fosse pronta per l’indipendenza. Gli eventi segnarono una svolta per gli ebrei libici, che non si sentirono più al sicuro nel Paese che consideravano il loro. E nel giugno 1948 scoppiò un altro pogrom. Mio padre era allora presidente della Comunità ebraica. Questa volta gli ebrei erano meglio preparati, e le perdite degli arabi furono molto maggiori. Ma la stragrande maggioranza degli ebrei dei villaggi dell’interno confluì a Tripoli, e la Comunità dovette occuparsene. Erano praticamente privi di tutto, loro e la maggior parte degli abitanti della Hara. Iniziarono incontri di riappacificazione, che culminarono in un incontro su una portaerei americana al largo del porto di Tripoli, con la partecipazione di esponenti ebrei e arabi e di ufficiali britannici. Fu raggiunto un accordo, secondo il quale fra l’altro l’amministrazione britannica avrebbe permesso l’emigrazione diretta degli ebrei nel nuovo Stato d’Israele.
Fra il 1949 e il 1952 (l’anno in cui la Libia ottenne l’indipendenza) ci furono collegamenti navali fra Tripoli e Haifa, che portarono in Israele quasi 31.000 emigranti. Ma i più benestanti decisero di procedere con cautela. Molti partirono verso l’Italia, e da lì fecero viaggi di ricognizione in Israele. In seguito alcuni decisero di restare in Italia, alcuni emigrarono in Israele e altri decisero di tornare a Tripoli. Anche la mia famiglia partì per l’Italia alla fine del 1948 e, dopo due anni a Firenze, tornò a Tripoli.

Purim al Circolo Maccabi, Tripoli 1948 (in prima fila, l’autore è il quarto da sinistra).

Ho descritto gli anni che seguirono, di cui ho ricordi personali, nel mio romanzo biografico Cielo nero (Belforte 2021). Furono anni complessi, in cui una comunità ebraica, che dopo la grande emigrazione si era ridotta a circa cinquemila persone, cercava di destreggiarsi fra una popolazione e un governo che diventavano sempre più ostili, in un clima di enorme sviluppo economico causato dal petrolio, e in una comunità ebraica che era diventata più tollerante e in cui molti avevano un comportamento apertamente laico. Noi giovani frequentavamo scuole italiane (elementare, media e liceo scientifico-umanistico o istituto tecnico), e poi quelli che volevano continuare gli studi venivano mandati all’università in Italia (anche io, a Firenze e poi a Pisa). Vivevamo in un’atmosfera cosmopolita, che includeva italiani, americani, inglesi, greci, maltesi e altri. Tutto terminò con l’espulsione (dopo un altro pogrom) di tutti gli ebrei nell’estate del 1967, in seguito alla Guerra dei sei giorni. In quasi seimila arrivarono in Italia, lasciando indietro tutte le proprietà. In seguito, dopo la rivoluzione di Gheddafi che pose fine alle speranze di recuperare parte dei beni perduti, circa la metà decise di venire in Israele (la mia famiglia emigrò nel 1970, dopo un periodo a Livorno), mentre altri scelsero di restare in Italia, o partirono per altri Paesi europei o per l’America. Ma eravamo praticamente di cultura italiana, anche se non tutti avevano la cittadinanza. Parlavamo la lingua senza inflessioni dialettali (alcuni me lo fanno ancora notare quando vengo in Italia); ascoltavamo alla radio i programmi italiani, nonostante problemi di ricezione; frequentavamo il Circolo Italia e la Dante Alighieri; vedevamo film italiani, o doppiati in italiano; leggevamo settimanali italiani e libri in italiano; conoscevamo tutte le canzoni; tifavamo per squadre di Serie A. E molti di noi, in varie parti del mondo e anche qui in Israele, siamo rimasti legati all’Italia come a una seconda patria.

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