Hanno arruolato mio figlio

Foto: https://www.crocettieditore.it/autore/yehuda-amichai/

Pubblichiamo “Hanno arruolato mio figlio”. Si tratta di versi da פתוח סגור פתוח   ‒ Aperto chiuso aperto, liberamente scelti e tradotti da Laura Forti ed Enrico Fink per il monologo “Via da Freedonia ‒ A proposito di Israele”, messo in scena nel 2008, e recentemente riproposti da Enrico Fink in occasione del festival internazionale di poesia “Voci lontane, voci sorelle” il 16 settembre 2024 al Cimitero degli Allori, Firenze. NdR

Hanno arruolato mio figlio. L’abbiamo portato
alla stazione, insieme agli altri ragazzi.
Ora il suo viso si è aggiunto a tutti quelli che mi dicono addio
dai finestrini di passaggio, degli autobus e dei treni della mia vita,
visi sotto la pioggia, visi
che fanno smorfie sotto il sole. E ora il suo viso,
nell’angolo del finestrino, come un francobollo su una busta.
In una piazza di Roma, vicino al Colosseo, mi lavo le mani a una fontanella
e bevo dalle mani a coppa, e intanto una donna dai capelli rossi
con un vestito bianco, che stava seduta su uno sgabello vicino a un cancello chiuso
se n’è andata. Quando alzo il mio viso bagnato
non c’è più, volata via come una piuma posta sul mondo
per controllare se stia ancora respirando. Sì, il mondo 
respira ancora, il mondo è vivo,
la donna vive ancora. Noi siamo vivi, mio figlio è ancora vivo, 
la piuma bianca vola ancora e vive.
Vorrei che mio figlio fosse un soldato dell’esercito italiano
con una corona di piume colorate sulla testa,
che corre qua e là, senza nemici, senza bisogno di mimetica.
Voglio dargli un consiglio: ascolta, figlio mio, non cambiare.
Ricordati: sei ciò che sei. Quando fa caldo,
bevi molta acqua.
E un altro consiglio che ricordo da quando la guerra la facevo io:
se esci di ronda la notte, riempi la borraccia fino all’orlo
così che l’acqua non abbia a far rumore e tradirti.
è così che la tua anima dovrebbe stare nel tuo corpo, grande e piena e silenziosa
(quando fai l’amore, allora fai pure tutto il rumore che vuoi).
E non ti scordare la finestra della tua stanza che è diventata
un finestrino dell’autobus. Alla fine di tutte le finestre, c’è una porta.
La porta dà, la porta toglie.
E soprattutto, non scordare la saggezza dello sgabello,
la gioia delle piume colorate,
la profezia della piuma bianca in volo.
E la visione di una vecchia città italiana
dove, alla fine di viuzze attorcigliate, c’è sempre
una piazza di sole e di parole.
Vorrei che mio figlio fosse una delle Guardie Svizzere del Vaticano
con le loro giacche colorate, le fasce e le lame smussate
che brillano nel sole.

Hanno arruolato mio figlio. 
Siamo andati a trovarlo in una base nel deserto, 
le pietre bianche lungo il sentiero
così calde e accecanti che mi sono coperto gli occhi
come una donna ebrea che accende le candele di Shabbat.
Mi sono seduto su una pietra accanto a un bidone vuoto, e la musica
del vento in quel bidone era tutto, tutto ciò che è stato,
tutto ciò che sarà. Dalle dune lontane sentivo spari isolati
come dita che sfogliano nervosamente, con insistenza, il libro della Vita e della Morte.
I passi di mio figlio, nudi, quand’era un bimbo facevano più rumore
dei suoi stivali pesanti sulla sabbia farinosa del Negev.
Vorrei che mio figlio fosse un soldato dell’esercito britannico,
a guardia di un palazzo nella pioggia. Un alto cappello di pelliccia sul suo capo,
e tutti che lo guardano mentre, senza muovere un muscolo,
sorride fra sé e sé.  
Adesso hanno arruolato 
anche mia figlia. Ora anche il suo viso è nel finestrino
dell’autobus che esce lento dalla stazione. Ora anche il suo viso 
è nell’angolo del finestrino come un francobollo su una busta.
Come suo fratello.
Che francobolli, che lettere inviate nel mondo,
che lettere che spediamo. Nomi, indirizzi, numeri
che francobolli variopinti, che visi.

E il battere del timbro del censore, come colpi di maglio del destino.

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