È trascorso un anno dopo la strage compiuta da dai membri di Hamas nei kibbutzim adiacenti alla Striscia di Gaza, nei villaggi di Ofakim, di Sderot e di altri situati nella periferia, e alla festa di Nova, nel Negev, dove hanno partecipato migliaia di giovani, e siamo ancora sconvolti per le atrocità perpetrate dai terroristi. Siamo tutt’ora avviliti per il fatto che ci sono ancora più di cento ostaggi israeliani imprigionati a Gaza in condizioni terribili, rammaricati per le migliaia di persone sfollate e per le moltitudini di feriti, traumatizzati fisicamente e psicologicamente, in ansia per una guerra che sta sempre più dilagando come una macchia d’olio nella regione. Inoltre molti di noi sono turbati e addolorati per le decine di migliaia di morti e di feriti tra la popolazione palestinese di Gaza e dei Territori occupati.
In Israele, in seguito al pogrom del 7 ottobre, si è aperta una vera e propria voragine che ha spaccato la società israeliana in due: da un lato vi sono forze che appoggiano questa guerra, ritenendola necessaria per la sopravvivenza dello Stato di Israele, e dall’altro vi è una popolazione che preme disperatamente per il cessate il fuoco e per delle trattative che portino alla liberazione degli ostaggi.
A tutto ciò si è aggiunto un immenso dolore, misto a rabbia, nel constatare che le nostre perdite avrebbero potuto essere di gran lunga meno gravi, se non fosse per il fatto importante che non si sono volute ascoltare le voci che hanno tentato di avvertire coloro i quali avrebbero potuto fare qualcosa, sulla possibilità di un pericolo imminente.
È risultato che il governo si era vergognosamente rivelato più preoccupato per la protezione degli insediamenti israeliani nei Territori occupati, piuttosto che della popolazione al confine con Gaza e che l’esercito israeliano ‒ considerato fra i più all’avanguardia, anche grazie agli enormi finanziamenti dell’America, e uno fra i più addestrati tecnologicamente ‒ si è dimostrato completamente impreparato per un attacco di tale portata. Riguardo poi ai sistemi di vigilanza e di sicurezza, è saltato fuori un vero e proprio scandalo: nei giorni che hanno preceduto il pogrom, 21 “osservatrici” ‒ soldatesse/sentinelle, poste a vigilare il territorio al confine con Gaza ‒ avevano avvertito i loro superiori che a Gaza stavano avvenendo movimenti insoliti e sospetti, tipici di quelli che precedono solitamente gli attacchi. Nei mesi precedenti avevano già messo in guardia i loro comandanti che a Gaza si stavano facendo preparativi preoccupanti. Purtroppo, non solo non sono state ascoltate, ma sono state per giunta derise e considerate isteriche. Se fossero state prese sul serio, l’esercito avrebbe rinforzato le difese nella zona, avrebbe potuto intervenire più tempestivamente e molto probabilmente avrebbe potuto salvare molte vite da quella strage atroce. Un vero e proprio scandalo!
Lungo il confine fra Israele e Gaza era installata una fila di telecamere collegate ad un centro di controllo – cioè la postazione “Nahal Oz”, dove si trovavano le osservatrici ‒ tramite le quali esse potevano sorvegliare il territorio al di qua e al di là della rete di divisione tra Gaza ed Israele. Come avevano previsto, il 7 ottobre è avvenuto l’attacco. Per prima cosa, membri di Hamas hanno lanciato bombe sulle telecamere. La base delle osservatrici è stata in tal modo isolata, assalita dai terroristi e sigillata per sette lunghe ore, fino alla sua liberazione da parte dei paracadutisti israeliani. Da filmati fatti dagli stessi terroristi, queste ventuno ragazze, rimaste chiuse nella loro postazione, sono state derise, picchiate e seviziate. Hanno provato a difendersi e hanno cercato di salvare anche le loro compagne, dimostrando acume e prontezza di riflessi. Una di loro, che sapeva l’arabo, ha provato anche a parlare ad un terrorista, chiedendogli della sua storia e dei motivi che lo hanno portato a fare ciò, ma il suo tentativo di portarlo ad un dialogo non è riuscito a fermarlo. Delle ventuno ragazze imprigionate nella postazione di Nahal Oz, quattordici sono state uccise, sette prese in ostaggio e due di loro, gravemente ferite oltre che oltraggiate, sono state poi liberate ed hanno potuto raccontare l’avvenuto. Cinque osservatrici sono tuttora tenute in ostaggio a Gaza.
Ulteriore scandalo: a un anno dal pogrom non è stata ancora aperta un’inchiesta ufficiale da parte dello Stato sui fatti del 7 ottobre. Tre ricercatrici, la giudice Saviona Rotlevi, la professoressa Ayelet Harel e la professoressa Shir Daphna-Tekoah, hanno preso però l’iniziativa (non commissionata né dal Governo né dall’esercito) di intervistare le due osservatrici liberate ed i loro familiari. Nei prossimi giorni ne saranno presentati i dati alle famiglie delle vittime. Il protocollo (Yaniv Kubovich, Haaretz, 2 ottobre 2024) contiene le testimonianze di soldatesse che hanno descritto l’inadeguatezza della difesa israeliana, le valutazioni errate da parte dell’intelligence, l’arroganza, la superbia e l’abbandono da parte dei loro comandanti e del governo stesso. Dall’articolo di Kubovich è emerso che le osservatrici, nonostante la loro vicinanza a Gaza, non erano sufficientemente armate e che, quando hanno chiesto che venissero restituite loro le armi che erano state precedentemente ritirate, hanno ricevuto un rifiuto. Due giorni prima del 7 ottobre avevano chiesto di partecipare a delle esercitazioni, ma fu detto loro con arroganza: «Che sciocchezze! Si tratta di esercitazioni adatte solo per uomini!». Tuttavia esse si sono comportate con molto coraggio: hanno aiutato gli altri combattenti e hanno lottato per non arrendersi, anche se sono state tenute all’oscuro di ciò che stava accadendo, disarmate e senza una capsula protettiva ‒ cubo di cemento armato, spostabile, come scudo contro gli spari. I loro genitori poi, non riuscendo a contattare le figlie e non avendo ricevuto alcuna notifica da parte dell’esercito, sono stati presi dal panico e, come impazziti, sono corsi sul posto per cercarle, finché sono stati informati molte ore dopo della perdita delle figlie. Altri hanno cercato nelle reti sociali fotografie delle ragazze o hanno chiesto notizie delle figlie ad altri soldati.
Anche dopo l’eccidio, la situazione non è cambiata di molto. Nessuno si è addossato la responsabilità di non avere dato peso alle informazioni delle osservatrici e ai loro avvertimenti. Il massacro e ciò che ne è seguito e che tuttora sta succedendo avrebbero potuto essere evitati risparmiando molte vittime innocenti.
Scrive Ruth Netzer, analista junghiana, nel suo libro Il mito dell’eroina (2019) che il denial (la negazione ‒ o addirittura il menefreghismo) delle informazioni riportate dalle osservatrici ha messo in luce ancora una volta il disprezzo e l’arroganza nei riguardi delle donne ‒ in quanto tali ‒ da parte della cultura patriarcale-maschilista, che imperversa ancora dopo generazioni e generazioni. Il non avere voluto ascoltare gli avvertimenti e le intuizioni delle osservatrici ci riconduce alla maledizione con cui la profetessa Cassandra è stata colpita: «Dirà la verità e non le crederanno». Secondo il mito greco, Cassandra aveva rifiutato l’amore di Apollo che, ferito nell’orgoglio, la volle poi punire, dandole, sì, il dono della profezia, ma al contempo la maledizione che le sue profezie non sarebbero state ascoltate. Nonostante gli ammonimenti di Apollo, Cassandra non smise di predire il futuro: mise in guardia i cittadini di Troia dal pericolo del cavallo di legno lasciato dai greci. Tuttavia, come si sa, i troiani non l’ascoltarono e Troia poi venne incendiata e distrutta. Alla fine fu anche condannata a morte da Clitemnestra, moglie di Agamennone, il quale l’aveva condotta con sé come prigioniera-concubina. Cassandra aveva anche previsto la propria morte, ma non l’aveva potuta evitare. Essa ‒ continua Netzer ‒ rappresenta la forza della donna aperta ai messaggi che provengono dall’inconscio, alle intuizioni di ciò che avviene nei rapporti interpersonali e alla conoscenza parapsicologica. La sua profezia è la voce della donna che viene disconosciuta e soffocata dal mondo maschile. Come si è visto, il non ascoltare la voce della donna può avere conseguenze catastrofiche, al tempo di Cassandra come ai nostri giorni. Si tratta di una arcaica posizione maschile, purtroppo ben nota, quella di rifiutare di credere che la donna possa sapere qualcosa che gli uomini non sappiano.
E ancora. Nella mitologia greca Era punì la ninfa Eco a causa della sua complicità con Zeus, condannandola a ripetere solo le ultime parole di ogni frase che udiva. Come sappiamo, Eco si innamorò del bellissimo Narciso e, non potendogli confessare il suo amore con la propria voce, finì per irritarlo col ripetere le ultime parole che lui pronunciava. Narciso era un giovane fiero e superbo e, pensando che fosse cosa di troppo poco conto stare con una semplice ninfa, non l’ascoltò e finì per abbandonarla. Nemesi, la dea della giustizia, per vendicarla, portò Narciso ad una fonte d’acqua limpida dove lui, specchiandosi, vide per la prima volta il proprio riflesso e se ne innamorò. Si innamorò talmente di se stesso che si dimenticò di mangiare e di bere e così morì, punito per la sua superbia e vanteria. Narciso ebbe la maledizione di non potere amare nessuna altra persona tranne se stesso, ed Eco ebbe il solo “privilegio” di ripetere le parole degli altri senza potere pronunciare le proprie, impersonificando l’eco che noi sentiamo quando andiamo in montagna.
Cassandra è una variante di Eco e anche della sirenetta di Andersen, la quale viene privata della propria voce dalla strega del mare. In tal modo anche lei non poté essere ascoltata e non poté trasmettere la verità. Esse rappresentano tutte le donne la cui voce non viene presa in considerazione, e viene soffocata. Molti nella storia del mondo occidentale sono stati i casi di donne che sono state viste come una minaccia e quindi private del loro potere, o addirittura perseguitate a causa di esso. Basti pensare anche alle decine di migliaia di “streghe” messe al rogo dal XV al XVIII secolo.
Nella cultura ebraico-cristiana, Eva, nel Giardino dell’Eden, è colpevole di avere sedotto Adamo a mangiare il frutto della conoscenza del Bene e del Male. Eppure, senza tale consapevolezza non esisterebbero l’umanità, la cultura ed il progresso morale.
Il meccanismo psicologico di molte donne che hanno introiettato l’imperativo di Apollo, o di chi ne fa le veci, è stato definito come il “Complesso di Cassandra”. Ciò porta molte donne ad essere incapaci di essere se stesse, rifiutandosi di ascoltare “la voce di Cassandra” dentro di sé, e a identificarsi invece con la voce di Apollo. Tale meccanismo viene definito “Animus negativo”, secondo la terminolgia analitica junghiana, o identificazione con l’aggressore, secondo la terminologia psicoanalitica. Tali donne non credono che la propria voce meriti di essere ascoltata ed in tal modo si autodiminuiscono.
Dalle testimonianze raccolte finora è certo che le osservatrici appostate lungo la Striscia di Gaza non erano affette dal complesso di Cassandra. Al contrario: esse hanno lottato per farsi sentire e hanno saputo misurarsi con forze disumane, aiutando combattenti, soldati, uomini e donne, a resistere alla furia da parte dei terroristi di Hamas.
Oggigiorno molte sono le donne che hanno imparato a valutare la propria voce e molti sono gli uomini che le sanno ascoltare. Ma l’atteggiamento di arroganza e di superiorità nei loro riguardi è ancora presente nella società occidentale, come in quella israeliana ‒ e soprattutto nel mondo militare. Troppe sono ancora le donne tragicamente non ascoltate.
Il disastro del 7 ottobre 2023 e il maschilismo che imperversa, non solo in Israele ma anche in molti Stati dominati da una mentalità patriarcale, hanno mostrato ancora una volta che la sordità alla voce e all’intuizione delle donne è stata catastrofica, e non solo per le giovani osservatrici ma per tutti noi.
Gerusalemme, 7 ottobre 2024