Come ogni sabato sera, faccio a passo lesto i dieci minuti di strada da casa fino al centro di Ness Ziona, in quello che da quasi un anno è stato rinominato “l’Incrocio della Democrazia”. Altri camminano nella stessa direzione, e quando arriviamo ci sono già alcune centinaia di persone, di tutte le età. C’è sempre una presenza femminile predominante. Bandiere, cartelli, trombette, tamburi, megafoni, altoparlanti che trasmettono musica, in attesa degli oratori che ogni settimana sono diversi, fra i più attivi in questo movimento di protesta, e anche scrittori, artisti e scienziati. La creatività dei manifestanti è eccezionale, e si manifesta anche negli slogan sugli striscioni e nelle canzoni. Grida ritmiche di «Tutti! Adesso!». C’è un po’ di polizia intorno, ma il traffico non viene bloccato; i manifestanti scendono dal marciapiede solo quando il semaforo per i pedoni è verde. Il messaggio principale degli oratori è la necessità di fare di tutto per liberare i nostri ostaggi a Gaza. Ma alcuni esigono anche la formazione di una commissione di inchiesta statale sugli eventi che hanno portato a questa guerra. E altri protestano per le minacce al nostro sistema democratico e chiedono elezioni immediate. Il tutto dura un’ora, e termina con il canto dell’inno nazionale, Ha-Tikwà. Alcune automobili di passaggio suonano il clacson. C’è un codice: suoni brevi e scanditi da chi appoggia, un suono lungo e continuo da chi è contrario. E ci sono non pochi di questi ultimi, e a volte persino attaccano violentemente le famiglie degli ostaggi; secondo loro, queste proteste impediscono al governo di ottenere la vittoria completa.

Questo è solo uno delle decine di punti di protesta nel Paese, non solo il sabato sera. Mia moglie Tova non è con me. È venuta qui solo quando uno degli oratori sono stato io. Lei preferisce andare con alcune amiche alla manifestazione a Tel Aviv, a una ventina di chilometri da qui, a cui partecipano decine di migliaia, a volte anche centinaia di migliaia, con strade bloccate. Questa situazione la deprime molto; si congeda da tutti col saluto «Che gli ostaggi ritornino presto», e sente la necessità di fare di più. Secondo un sondaggio, un israeliano su otto conosce uno degli ostaggi. Le loro famiglie sono accampate da un anno nel piazzale del Museo di Tel Aviv, che adesso è conosciuto come piazza degli Ostaggi, e hanno bisogno di appoggio e solidarietà.
Le manifestazioni non sono cominciate subito. Non pareva giusto manifestare dopo la strage e mentre i nostri soldati combattevano. Ma dopo la liberazione della prima metà degli ostaggi, e in seguito ad alcune evidenze che il governo non faceva tutto ciò che poteva per arrivare ad un accordo per liberare quelli rimasti, molti hanno sentito la necessità di scendere in piazza. E le proteste sono aumentate quando il governo ha deciso di approfittare della situazione per riprendere la riforma del sistema giudiziario che gli darebbe poteri quasi assoluti, e per cercare di prendere il controllo dei mezzi di comunicazione. La sfiducia nel governo è grande, tutti i sondaggi prevedono la maggioranza agli oppositori del governo, ma questo continua imperterrito.

Questa è la nostra routine da quasi un anno. E mantenere la routine è diventata quasi una parola d’ordine in tutti i campi. Si parla di “routine di guerra”. E questa include abituarsi ai quasi quotidiani annunci di soldati caduti su tutti i fronti; tornare al lavoro e agli studi, cercando di assistere al meglio possible centinaia di migliaia di famiglie di riservisti (anche con molte iniziative di volontari); riprendere i lavori di costruzione, con trentamila lavoratori cinesi e indiani che sostituiscono i palestinesi; tornare a viaggiare all’estero, per chi trova voli disponibili (alcune Compagnie minori stanno tornando ad operare qui, ma le piu grandi hanno interrotto i voli almeno fino alla prossima primavera); ed anche andare al cinema e al teatro, perché anche gli artisti devono vivere. All’Opera di Tel Aviv il programma quest’anno è diverso; non ci sono partecipazioni dall’estero, a parte quelle individuali (un tenore rumeno, un direttore di orchestra inglese, un regista spagnolo ed altri). E all’inizio di ogni spettacolo c’è un annuncio: «in caso di allarme, rimanete al vostro posto, piegatevi in avanti, mettete la testa fra le ginocchia e proteggetela con le mani; e rimanete così per dieci minuti».
All’estero c’è chi ci accusa di non essere consapevoli della distruzione a Gaza. Non è esatto. Dipende da che giornale leggiamo e da che rete televisiva vediamo. È vero che molti mezzi di informazione preferiscono concentrarsi sulle nostre sofferenze, ma non tutti. Però è difficile sensibilizzare alle sofferenze degli altri quando la guerra continua, soldati e civili continuano a cadere, missili e droni sono ancora lanciati sul Paese, anche dai Houthi dello Yemen che pare vogliano sostituire Hezbollah come delegati dell’Iran nella nostra area, e cento ostaggi sono ancora nelle gallerie sotterranee di Hamas.

Gli eventi qui si succedono a ritmo frenetico. È cominciata una fragile tregua nel Nord; per ora regge, per quanto non si sa se il governo libanese sia in grado di mantenere le sue promesse. Alcuni degli sfollati, a sud e a nord, cercano di tornare nelle loro case, con molta cautela, aiutati nei lavori di riparazione da molti volontari, anche dall’estero. ll regime di Bashar Assad in Siria è crollato in meno di due settimane, e Israele ha occupato temporaneamente la zona di confine sulle alture del Golan, in attesa di conoscere l’identità dei nuovi governanti; intanto bombarda depositi di armamenti non convenzionali (anche chimici), per evitare che cadano nelle mani di terroristi (ci sono cinque fazioni diverse fra i gruppi armati, e almeno due di loro sono estremisti islamici – finora in Siria Israele aveva attaccato solo basi di Hezbollah). Il governo trama di rimuovere la Procuratrice generale e di cambiare unilateralmente la composizione del Collegio per l’elezione dei giudici, e si teme una crisi costituzionale. Sono settimane che le trattative per un accordo su Gaza «sono vicine ad una svolta». E quattro anni e mezzo dopo l’inizio del processo di Netanyahu (per corruzione, frode e violazione della fiducia) è iniziata la sua testimonianza, dopo molti rinvii; pare che sia la prima volta al mondo che un Primo ministro in carica viene processato, un record che non si capisce bene se ci faccia onore o no. Intanto in cineteche di vari Paesi del mondo viene proiettato un documentario americano, The Bibi Files (Le pratiche di Bibi), che mostra filmati (trapelati non si sa come) degli interrogatori di Netanyahu e di altri testimoni davanti agli investigatori della polizia. È avvincente, irritante e allo stesso tempo deprimente. In Israele non si può proiettarlo nei cinema per questioni di sub iudice, ma chi ha un po’ di competenze digitali ha trovato il modo di scaricarlo sul computer o sul telefonino. Ed è candidato all’Oscar. Un altro documentario, israeliano, che vorrebbe essere candidato all’Oscar è Torneremo a ballare, sul massacro al Festival Nova il 7 ottobre 2023. Ma l’Associazione Internazionale dei Documentaristi (IDA) non è disposta ad accettarlo per motivi politici.
Un altro campo di battaglia.