I sonetti ebraici di Piero Nissim

Quando si parla di presenza ebraica e in particolare di giudeo-italiano in Toscana occidentale, si pensa anzitutto a Livorno e al bagitto. Basta considerare i 180 sonetti giudaico-livornesi di Guido Bedarida (1956) e la sua ricca opera teatrale, animata tra il 1924 e il 1937, in Toscana e fuori, da attrici, attori e teatranti quali Cesarino Rossi, con la sorella Piera e Lida Bemporad, Cesare, Renzo ed Elio Toaff, con la fidanzata e poi moglie Lia Luperini, Ugo Della Torre ecc. Eppure, anche al giorno d’oggi, l’area bagitta include Livorno, Pisa e Viareggio, con propaggini in altre città e nazioni (Tunisia, Israele, Francia) dovute a rapporti familiari. Se guardiamo poi agli archivi della Comunità ebraica di Pisa (un tempo detta קהל קדוש o «Kahal kadosh» “santa Comunità”, «Natione hebrea» ecc.), i verbali dei processi condotti dai Parnasim, le suppliche al Granduca e gli stessi testi contabili e normativi mostrano già nel Sei e Settecento elementi giudeo-italiani o bagitti. Su questi temi la ricerca scientifica è in movimento (vedi La Rassegna Mensile di Israel, 84, 2018, 3, e 85, 2019, 2) ma, per fortuna, è in movimento anche la produzione di nuovi testi.
Parliamo di Piero Nissim, Sonetti ebraici. Trenta poesie fuciniane sulla comunità ebraica di Pisa e dintorni, Salomone Belforte & C., Livorno 2022. Per il numero di componimenti questa raccolta coincide coi Trenta sonetti giudaico-livornesi pubblicati da Meir Migdali (Mario Della Torre) in terra d’Israele nel 1990; Meir l’ho incontrato, a Netanya, dopo la pubblicazione dei suoi sonetti, ma di questi ho visto la genesi, commentandone alcuni già il 10 ottobre 2021, Giornata europea della cultura ebraica, presso la Sinagoga di Pisa. 
Il far versi di ispirazione ebraica e in forma linguistica pisana è un esito quasi naturale del viaggio poetico di Piero Nissim. C’erano, da un lato, i suoi interessi per la poesia e la musica yiddish, ispirati dalla madre Myriam Plotkin, di origine lituana, e testimoniati da vari CD (vedi p. 77); dall’altro quelli per la poesia in vernacolo pisano ereditati dal padre Giorgio, che per Renato Fucini ossia «Tanfucio Neri / aveva ’na passione, ’vest’è ’r bello / che mi trasmise». La poesia Concrusione mette in versi la foto del 1953 posta sulla copertina del volumetto, col piccolo Piero «che recitav[a] a Castiglioncello / ar Cardellino, sotto ’ pini austeri» proprio i «sonetti interi» del Fucini. Il Cardellino era (ed è) un locale della pineta di Castiglioncello, che negli anni ’50 accoglieva anche i divi del cinema, ma la parola rimanda all’83° dei Cento sonetti in vernacolo pisano del Fucini, Li studi di Neri: «O senti: io ’mprincipiai da bimbettino / a studia’ sotto ’ lecci di Dianella / come faceva ’r nidio un cardellino»: così le immagini del piccolo Neri sotto i lecci e del piccolo Piero sotto i pini finiscono per sovrapporsi (e il dialogo immaginario di Piero con Neri continua in alcune poesie).
Il volumetto si struttura in sei sezioni numerate, come si fa nel mondo ebraico, con le lettere dell’alfabeto, da alef א a waw ו. Guardando i titoli e i contenuti delle sezioni 1. א Ricordi (13 poesie), 2.ב Memoria (3 poesie) e 4.ד Omaggi (4 poesie, dedicate a care figure purtroppo scomparse), vediamo che la raccolta, per due terzi, è dominata dal ricordo, dalla velata malinconia, da un triste o talora ironico abbandono; ne scrive finemente, nella sua Prefazione, Umberto Fortis, mentre anche Moni Ovadia, nella Presentazione, parla di «acquerelli, o di immagini fotografiche di un altro tempo». 
Eppure, anche in queste sezioni memoriali si colgono fremiti di passione civile che si riallacciano ad altri aspetti del percorso di Nissim, quelli libertari e contestatari del 1967-68. Il sonetto Ar cimitero si conclude col ricordo del maestro e dirigente socialista Carlo Cammeo, ucciso dai fascisti il 13 aprile 1921, sulla cui tomba stanno, in modo inusuale per un cimitero ebraico, «i segni dell’ebreo e del socialista: / stella di David, falce col martello». A proposito delle vicende di un caro amico comune, Amnon Shappira (l’ho rivisto tempo fa per una mia conferenza proprio «a Gerusalemme, ai sacri poggi»), Piero esclama «Chissà perché vengon cacciati i buoni, / quelli più preparati e senza appoggi, / nemmen si fosse ai tempi dei Borboni!» (p. 32). Commentando le discussioni nella «keillà», tra il 1956 e il ’57, tra conservatori e persone «bone, / che avevano lo sguardo sur domani» e seguivano il giovane rav Tagliacozzo, conclude che «non vinse il nuovo e alla stazione / lo salutammo, soli come cani» (p. 38). Riferendosi alle Leggi razziali (San Rossore 1938) [pubblicato in questo numero], immagina di passeggiare tra gli alberi della tenuta ove Vittorio Emanuele III firmò gli infami decreti, e di sentirsi intorno «’velli sguardi / de’ professori ebrei discriminati / dar duce… e dallo stronzo der D’Achiardi». Si tratta del rettore dell’Università di Pisa che preparò le liste di espulsione dei professori e di ben 290 studenti ebrei stranieri, 250 ragazzi e 40 ragazze, provenienti per lo più dalla Polonia ma anche da Lituania, Romania, Ungheria, Germania ecc. (vedi le foto delle liste in Per Frida Misul. Donne e uomini ad Auschwitz, Belforte, Livorno 2019, pp. 202-212); a lui fu ed è rimasta a lungo dedicata una strada ma ora, sulla spinta di un ampio movimento cittadino (in cui anche il sonetto si colloca), cambierà nome e si chiamerà, a norma di Proverbi 10,7, via dei Giusti tra le Nazioni. 

Accanto ai toni fuciniani e a quelli dell’impegno civile, la piccola sezione 5. ה Visioni universali ne mostra di quasi leopardiani, come in «si nasce, si fatìa, risi e pianti / senza sapé’ se nèvia o se piove […] / siamo granelli e frasche in mezzo ar monte» (p. 61); l’«ermo colle» dell’Infinito si trasforma in un luogo dei Monti pisani in cui però il pensiero va al divino: «Così sdraiato in cima a Santallago / abbraccio ’r mondo intero, l’universo / e penso a dove si nasconde ir Mago!» (p. 62).
Di grande fascino è la sezione 3.ג Festività. Le scadenze del calendario ebraico sono presentate con tocchi felici e con gli occhi del bambino di allora, che svolgeva piccole mitzwot sinagogali (Incarichi), che per la Festa delle Capanne «cor babbo e con la mamma / […] andava alla sukkà che per benino / era allestita a ricordà’ la manna» (Sukkot) e che, nella cerimonia di Yom Kippur, «quando arrivava El Nora Alilà / canto finale verso l’imbrunire», cogli spazientiti  coetanei «cantava: “È l’ora di mangià!”», essendo prossima la fine del digiuno. E uno spirito davvero fuciniano alleggia nel sonetto Un rito ebraico in su l’Arno: secondo la tradizione del תשליך Tashlikh “buttar via”, a «Capodanno si ridoventa boni / gettando in acque fonde de’ pietroni / con i peccati nostri e co’ misfatti»; volendo liberarsi delle cose brutte, per affrontare serenamente l’anno nuovo, un tale Neri, oppresso dalle «doglie», «’un ha capito nulla e fa lo scemo:/ voleva buttà in acqua la su’ moglie!» … e capirete che, dopo l’esposizione del solenne significato del rito, questo finale scatena il riso.
Concludo con qualche aspetto formale e linguistico. Questi sonetti non sono sempre regolari: talora il discorso richiede l’aggiunta di una coda, talora la misura metrica non è quella dell’endecasillabo (ma l’autore nella recitazione ripristina quasi sempre il metro giusto), talora la rima perfetta cede alla consonanza cara al canto popolare (Palestro / Castro; ricordo / baluardo) o all’assonanza (maestro / presto; cinquanta / manca / speranza). Questi esiti popolareggianti acquistano un sapore particolare quando s’incrociano con la diversità linguistica: nei versi sulla festa di Shavuot «la tavola imbandita con amore / ha come base cibi, latte e miele / e al Tempio si ringrazierà il Signore / – sempre sia lode ad Adonai Melech», l’ebraico מלך melekh “re” rima con l’italiano miele, secondo un procedimento caro al Pascoli di Italy, ove il lucchese nieva “neve” rima con l’inglese flavour, italianizzato in fleva, e con l’inglese never.
Come l’autore dice nella sua Introduzione, in questi sonetti non si usa «un vernacolo “stretto”», per quanto riguarda sia il pisano sia il bagitto. La componente ebraica incide, sul piano lessicale, soprattutto nelle sezioni 1. אRicordi e 3.ג Festività, ove i frequenti termini ebraici sono posti in corsivo e quindi spiegati (a piè di pagina o nel Glossario finale, pp. 73-75). Dei 20 lemmi del Glossario 14 appartengono alla sfera religiosa e sono pienamente ebraici, mentre pochi altri, come Judim (invece di Yehudim) e Orecchie di Amman “dolci tipici di Purim” (allusivi alla brutta fine di Haman, il nemico degli ebrei nel libro di Ester), appartengono al «gergo» giudeo-italiano. Altri aspetti, di rilievo anche morfologico, vanno a toccare il sistema delle rime. Abbiamo parole in rima col maschile plurale ebraico in ים –ìm, a es. Cohanim “sacerdoti” / Nissim, letteralmente “miracoli” / judim (p. 29), e serie miste ove i femminili singolari ebraici in ה –à rimano con quelli italiani, come in Comunità / keillà [qehillà] / Chanukkà (p. 23: Comunità e keillà sono anche sinonimi); in Alilà / mangià’ / keillà (p. 46) la voce centrale è invece un infinito apocopato alla toscana (ma anche alla romana). Un sapore bagitto è dato dagli adattamenti di termini ebraici alla fonetica toscana, come in Kippurre (p. 46), minnianne per מנין minyan “numero minimo di dieci ebrei per convalidare una funzione religiosa” (p. 22) o shamasce (שמש shammash), che indica l’inserviente della sinagoga (p. 22) o il lume “di servizio” con cui si accendono i lumi nella festa di Chanukkà (p. 48). Infine tra le parole in rima Olivetti /’velli macchinetti “quelle macchinette”/ affetti (p. 57) si nota il femminile plurale in –i invece che in –e, ritenuto da Benvenuto Terracini «la più costante caratteristica del giudeo-italiano» e già attestato in una «Nota delli Mazzot dati nell’anno 1732» (Archivio della Comunità ebraica di Pisa; foto in La Rassegna Mensile di Israel, vol. 85, n. 2, 2019, p. 88, corsivi miei). Non un pisano o un giudeo-italiano “stretto”, dunque, ma certo un impasto linguistico ricco, con l’inserimento di termini moderni quali «messaggini», «timme» “team”, «compiuterre» (p. 57). Ma il tocco di modernità più divertente (e serio) è nel sonetto Pesach quando Mosè esorta il popolo ebraico, «Giù, mettetevi in marcia che gliè l’ora!», ed esclama, creando un’esilarante rima interna, «ciao Egitto, ciaone faraone / la libertà sarà la nostra aurora!».

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