Jaqov Anatoli, un ebreo provenzale alla corte di Federico II

Federico II. De arte venandi cum avibus, Biblioteca Vaticana, Pal. lat 1071, fine XIII secolo (Credit Wikipedia.org).

Jaqov Anatoli, filosofo, predicatore e medico provenzale del XIII secolo – ancora poco conosciuto al grande pubblico –  è un’interessante figura di intellettuale, da un lato fortemente radicato nella tradizione biblica e talmudica, intessuto dei più profondi valori della religione ebraica, tanto che la sua prima attività fu quella di predicatore (darshan) nelle sinagoghe, dall’altro conoscitore della filosofia e delle “scienze”, estimatore della cultura greco-araba ed aperto al mondo cristiano-latino, tanto da collaborare con un pensatore cristiano, Michele Scoto.

Jaqov ben Abba Mari ben Simon ben Anatoli (questo il suo nome per intero) è solitamente citato dagli studiosi per la sua attività di traduttore e medico presso la corte dell’imperatore Federico II di Svevia, dove, insieme a Michele Scoto, ha un ruolo chiave nell’introdurre gli scritti di Averroè nel mondo latino. Oltre a redigere numerose traduzioni, scrive un testo dal titolo Malmad ha-talmidim (Il pungolo dei discepoli), una serie di sermoni (derashot), in cui commenta la Scrittura in chiave allegorico-filosofica. Quest’opera, oltre ad essere ricca di spunti di riflessione, è una preziosa fonte di informazioni storiche sulla Provenza del XIII secolo e su Federico II. Anatoli, nel testo, riporta discussioni dibattute a corte con lo stesso imperatore e fornisce importanti dati sulla cultura provenzale dell’epoca, caratterizzata da una forte tradizione di studi talmudici, dalla scoperta della “scienza”, soprattutto delle opere filosofiche greche e islamiche, dal diffondersi del pensiero razionalista di Mosè Maimonide, dalla conseguente polemica antifilosofica, ed infine da forti tensioni religiose.
Non si hanno informazioni precise sulla sua vita; alcune importanti notizie le apprendiamo dall’autore che, nell’Introduzione al Malmad ha-talmidim, scrive sui suoi studi, sui suoi maestri e sulla sua esperienza di predicatore. Nasce intorno al 1194, nel Sud della Francia, probabilmente a Marsiglia, muore forse nel 1256, sposa la figlia di Shemuel Ibn Tibbon, celebre traduttore della Guida dei perplessi di Maimonide. La sua educazione segue il modello tradizionale: come tutti i suoi contemporanei compie inizialmente studi talmudici. Inoltre, a Lunel, dal maestro Shemuel Ibn Tibbon, apprende le scienze, la matematica, la medicina, la lingua araba, studia filosofia, in particolare la Guida dei perplessi di Mosè Maimonide, e inizia a tradurre dall’arabo all’ebraico opere scientifiche, di logica e astronomia. Come è noto, la famiglia dei Tibbonidi ha un ruolo fondamentale nello sviluppo degli studi filosofici in Provenza. Gli ebrei provenzali, a differenza di quelli di Spagna, non conoscevano l’arabo, lingua in cui erano redatte le maggiori opere filosofiche, quindi la famiglia dei Tibbonidi cura il complesso lavoro di traduzione dall’arabo all’ebraico che rende accessibile agli ebrei quasi tutte le opere della cultura greca, le opere scientifiche e filosofiche degli autori musulmani e anche le opere ebraiche composte in arabo. Soprattutto la traduzione ebraica di Shemuel Ibn Tibbon della Guida dei perplessi segna per gli ebrei non arabofoni una tappa culturale estremamente significativa: Maimonide, inserendo nel testo biblico la filosofia aristotelica, fonda un metodo esegetico che imprime una svolta decisiva allo sviluppo del pensiero. Nel XIII secolo nasce così in Provenza una vera e propria scuola di esegesi maimonidea, di cui Anatoli è influente esponente, che ritiene compito “sacro” trasmettere le “verità filosofiche” contenute nella Guida dei perplessi. I filosofi ebrei provenzali, rifacendosi soprattutto a Maimonide ed Averroè, si dedicano all’interpretazione filosofica del testo biblico e dei testi tradizionali (Talmud e Midrash) nella convinzione che la filosofia sia il senso profondo della rivelazione divina e della stessa tradizione rabbinica. In questo contesto si inseriscono la formazione e l’attività di Anatoli. Nella seconda decade del XIII secolo, la Guida dei perplessi, nella traduzione di Shemuel Ibn Tibbon, circolava in molte città della Provenza ed era apprezzata e studiata nei circoli razionalisti, trovando però numerose opposizioni in quelli antirazionalisti.
La tensione che genera la controversia maimonidea, il diffondersi dell’antirazionalismo e della polemica contro la filosofia sono certamente le cause che spingono Anatoli a lasciare la sua terra di origine. Nel Malmad ha-talmidim fa esplicito riferimento all’antirazionalismo di «molti dei rabbini» del suo tempo e nell’Introduzione scrive che dovette interrompere le omelie filosofiche che usava tenere il sabato in sinagoga per l’opposizione di alcuni membri della comunità. Spinto da questi avvenimenti e in cerca di un clima più tranquillo, nel 1231 lascia la Provenza per recarsi a Napoli presso la corte di Federico II.  L’imperatore, interessato alla conoscenza del pensiero aristotelico, sostiene sia la diffusione delle traduzioni dall’arabo in latino e in ebraico dei testi aristotelici e dei commenti averroistici, sia la divulgazione del pensiero di Mosè Maimonide, in quanto maggiore rappresentante della corrente aristotelica della filosofia ebraica medievale. È importante ricordare che in Italia, prima del XIII secolo, non vi è diffusione del pensiero di Maimonide, e Federico invita presso la sua corte filosofi e traduttori dalla Spagna e dalla Provenza, grandi centri di studio di Maimonide, proprio per divulgare il pensiero di quest’ultimo e la sua interpretazione dell’aristotelismo. Tra questi il primo sapiente ebreo chiamato a corte è proprio rabbi Jaqov Anatoli, che ha dunque un ruolo decisivo: grazie a lui la tradizione maimonidea si afferma saldamente nell’Italia meridionale, dando vita a una nuova corrente filosofica che sarà caratteristica degli ebrei italiani e che si esprimerà principalmente nell’interpretazione e nello sviluppo del pensiero di Mosè Maimonide e di Shemuel Ibn Tibbon. In Italia meridionale la Guida dei perplessi sarà oggetto di studi approfonditi e sistematici. 

Presso la corte di Federico II prende corpo la collaborazione tra studiosi ebrei e cristiani, con un ruolo non indifferente svolto dai domenicani e dai francescani, che avevano un evidente interesse ideologico e dottrinale alla diffusione dell’opera di Maimonide in cui trovavano soprattutto argomenti per giungere a una possibile conciliazione tra filosofia e fede su basi aristoteliche. Probabilmente Jaqov vive presso la corte di Federico II dal 1231 al 1240; collabora con Michele Scoto nel lavoro di traduzione, dall’arabo all’ebraico, di parte del Commento di Averroè alle opere di Aristotele, contribuendo in tal modo al complesso movimento culturale che ebbe come risultato la diffusione in Occidente di una più approfondita conoscenza del pensiero aristotelico. Inizia a Napoli tali traduzioni, che sono datate dal 1231 al 1235. Nel colophon di un corpus di queste traduzioni (datato marzo 1232) scrive di compiacere il desiderio dell’imperatore Federico, «l’amante delle scienze, che mi sostiene».  Da queste ultime parole si desume chiaramente il rapporto di dipendenza economica di Anatoli dall’imperatore sulla base di uno stile da “mecenate” che Federico amava interpretare soprattutto perché vedeva nella cultura e nell’accrescere del sapere una forte radicazione del suo imperium. Il Malmad ha-talmidim, trattato omiletico-filosofico, è composto da quarantotto derashot (sermoni) e da un’Introduzione, che come accennato, è ricca di riferimenti autobiografici e storici. Il testo, scritto originariamente in ebraico, ha una vasta tradizione manoscritta. Nell’Introduzione al Malmad ha-talmidim Anatoli dichiara che lo scopo principale dell’opera è incitare allo studio, alla profonda comprensione della Torà, e ritiene che solo una lettura filosofica ne possa cogliere il significato profondo. I sermoni si basano sul tipo di esegesi filosofica di Maimonide, esegesi che distingue tra il significato letterale, chiaro (galuy), che è comprensibile a tutti, e il significato nascosto (nistar), conosciuto solo dai filosofi. Leggendo filosoficamente la Scrittura, traducendola in termini filosofici, in particolare aristotelici, è possibile comprendere razionalmente le verità di fede. Per questo, nel trattato, l’autore critica ripetutamente la lettura superficiale della Torà e la sua mera osservanza priva di comprensione e riflessione; attacca duramente il culto formale e il lassismo delle pratiche religiose. Nel Malmad ha-talmidim vengono affrontati alcuni grandi temi propri della filosofia medievale: l’esistenza di Dio, le prove della sua esistenza, la creazione del mondo ex nihilo, il rapporto tra Dio e il mondo, la provvidenza divina, il rapporto fede-filosofia, la ricompensa, la profezia, la visione dell’uomo, la sua perfezione, l’anima, la sapienza, i limiti della conoscenza umana e della possibile conoscenza di Dio. L’essere umano, ultimo nella creazione delle cose composte, è unione di materia e forma: per il suo corpo è legato alla materia, per la sua anima alla forma. Nella descrizione della sua duplice composizione Anatoli si sofferma più sull’aspetto morale che su quello ontologico e in particolare affronta il problema dell’istinto del male (yetzer ha-ra‘) insito nell’individuo, legato alla sua parte materiale. Ogni soggetto vive una lotta interiore tra il bene e il male, tra l’intelletto e i cattivi istinti. Il filosofo, con un fine evidentemente educativo, descrive nei minimi dettagli questa lotta e la difficoltà di dominare l’inclinazione al male. Egli, infatti, sente come uno dei suoi compiti principali quello di mostrare la “giusta strada” e di insegnare come seguirla. Nessuno può giungere alla sapienza, alla perfezione da solo, ma ha bisogno di un maestro, di una guida: sono necessari l’insegnamento e lo studio. Anatoli sottolinea spesso l’importanza del dialogo con l’altro, dell’ascolto del sapere altrui e, citando il testo biblico, afferma che, come sostengono i Maestri, il vero sapiente è colui che impara da ogni individuo, come è detto: «da tutti coloro che mi insegnarono mi sono istruito» (Salmo 119,99). Nel testo è presente sia il riferimento a Maimonide e ad Aristotele ‒ come era tramandato nelle scuole arabe, con i commenti di Averroè e Avicenna ‒ sia ad elementi neoplatonici, ma vi è anche l’eco della cultura della corte di Federico II nonché della scolastica cristiana. Anatoli, infatti, come tutti i filosofi ebrei medievali vissuti in Italia, da un lato mantiene pienamente l’identità ebraica, dall’altro vive in perfetta simbiosi culturale con l’ambiente circostante. Proprio tale simbiosi tra ebrei e cristiani, l’affinità e la vicinanza ideologica, la comunanza di interessi teologici e filosofici, determinerà un’intensa collaborazione culturale. Così nel Malmad ha-talmidim si trovano, accanto alle interpretazioni bibliche di Mosè Maimonide o di altre fonti della tradizione ebraica, quelle del cristiano Michele Scoto e dello stesso imperatore Federico II. Probabilmente Jaqov è il primo filosofo ebreo che, nell’interpretazione del testo biblico, si avvale dell’esegesi di un commentatore cristiano. Nell’Introduzione dichiara esplicitamente di aver collaborato con Michele Scoto, che amichevolmente chiama «il grande sapiente (ha-chakham ha-gadol)» e puntualizzando che tale sapiente non faceva parte del suo popolo (ossia non era ebreo) sottolinea che non per questo si devono disprezzare i suoi insegnamenti. È interessante notare che Anatoli, spiegando perché accetti le sue interpretazioni, dichiara apertamente che la scienza, nonché l’esegesi biblica, sono o vere o false a prescindere dalla religione di chi le enuncia. Mi piace concludere evidenziando proprio questo aspetto: la sua capacità di apertura all’altro, di vero ascolto, confronto e dialogo. Anatoli è un esempio emblematico di dialogo interreligioso in pieno Medioevo e ritengo che le sue considerazioni possano ancora insegnarci molto.

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