Una parokhet per Sukkot

La parokhet è uno degli elementi più importanti nell’apparato decorativo della sinagoga: sia che la tenda venga posta davanti all’Arca santa, sia venga usata come ampio ornamento della Tevà, quando il pulpito è soprelevato. Di forma quasi sempre quadrangolare, è talora ricamata con motivi floreali stilizzati, con figure geometriche su un fondo uniforme; spesso riproduce i tradizionali simboli ebraici, come il Maghen David o le Tavole della Legge; a volte è dono di un fedele, opera della dedizione e della valentia femminile di chi ha dedicato il proprio impegno per la propria comunità. Rari sono i casi in cui una tenda per l’Aron o per la Tevà ha un impianto figurativo, nella volontà di rappresentare un particolare episodio biblico o eventi che hanno segnato la lunga storia dell’antico popolo d’Israele; e sono allora referti che in qualche modo si legano a una particolare festività o a una specifica ricorrenza, per ricordarne il profondo significato storico e religioso. 
La più nota parokhet veneziana, recentemente esposta anche agli Uffizi, ricorda, con un’ampia scenografia, il dono della Torà sul monte Sinai; opera di un’intera vita di Stella Kohenet Perugia, essa è evidentemente legata alla festa di Shavu‘ot e in tale occasione veniva esposta davanti all’Aron della sinagoga spagnola. 
Alla comunità di Venezia appartiene però anche un’altra parokhet singolare, una delle poche a carattere figurativo, certo meno valida sul piano artistico, ma non meno importante per il messaggio che intende trasmettere ai fedeli. Copia di un lavoro più antico, risalente al XVIII secolo, forse di provenienza ferrarese, essa fu donata, come si legge nel cartiglio-medaglione, dalla «Santa Comunità Levantina nell’anno 5564 (1803-1804)». L’arazzo raffigura alcuni momenti particolari della lunga permanenza degli ebrei nel deserto, dopo la fuga dall’Egitto. Si tratta della rappresentazione di eventi, ricordati in Esodo 16: la richiesta di pane, con la discesa della manna dal cielo e la domanda di carne, con l’arrivo delle quaglie; e, prima dello scontro con ‘Amaleq, in Esodo 17 il bisogno di acqua che Mosè fa sgorgare dalla roccia, battendo il masso con la stessa verga con la quale aveva colpito le acque del Nilo. Gli avvenimenti miracolosi sono evocati nel testo figurativo con citazioni provenienti dalla Torà: «‘omer la-gulgolet –una misura a testa» (Esodo 16,16); e da Salmi 105,40-41: «sha’al wayave selaw welechem shamayim yasbi‘em – mandò e fece venire le quaglie e li saziò di pane celeste; patach tzur wayazuvu mayim – aprì una rupe e ne sgorgarono acque (e un fiume cominciò a scorrere nel deserto)».

La raffigurazione, affidata a un sapiente dosaggio coloristico, presenta un paesaggio desertico, che si apre in prospettiva, facendo intravedere sul fondo le montagne (il monte Chorev). Undici tende contrapposte, in doppia fila (tante quante sono le stelle che Giuseppe vide nel suo secondo sogno?), rappresentano la dimora provvisoria del popolo nel deserto: sono tende di diversa natura, più modeste le sei di sinistra, pur segnate geometricamente dalle stesse linee colorate; più imponenti le cinque di destra, decorate da una vistosa corona enfatizzante. Dalle nubi scende la manna, mentre un recipiente al centro indica la misura quotidiana destinata a ognuno (‘omer); le quaglie volano a schiera, nel numero, non casuale, di sette; in basso, a sinistra, l’immagine, irrealistica, della verga di Mosè che fa sgorgare l’acqua da una roccia, che, di fatto, è parte del monte Chorev (presente sullo sfondo), presso il quale egli si è recato con un gruppo di anziani.
Colui che ha ideato l’intero complesso pare, anzi tutto, aver voluto eliminare le comuni, reali coordinate spaziotemporali. Gli eventi rappresentati, sullo sfondo del deserto, che è tradizionalmente interpretato come lo spazio della prova e della purificazione spirituali, avvennero, infatti, in due momenti diversi, che qui appaiono unificati, e in due luoghi differenti, che qui vengono associati: il deserto di Sin, con l’arrivo delle quaglie e la discesa della manna, e la località di Refidim per lo sgorgare dell’acqua, avvenimento che precedette lo scontro con ‘Amaleq. La convergenza in un’unica immagine di accadimenti tra loro lontani, ma orientati certo verso un unico fine superiore di salvezza, invita perciò a ipotizzare che l’autore, o l’autrice, abbia voluto trasmettere agli oranti della sinagoga prima di tutto un messaggio proiettato verso un preciso significato universale e metastorico.

Una più attenta osservazione della disposizione stessa delle immagini nell’impaginato, che appare strutturato secondo un preciso schema tripartito, sembra suggerire, prima di tutto, proprio la volontà di affermazione di un valore perenne espresso dal testo biblico: 

cielo

carne (quaglie)     pane (manna)

uomo

tende

terra

roccia- acqua-piante

In alto, il cielo con le quaglie (carne) e la manna (pane); al centro le tende (uomo); in basso, la terra (roccia-acqua e piante). Ogni accadimento appare, in realtà, miracoloso per l’eccezionale coincidenza temporale e spaziale del suo verificarsi per volontà divina a favore dell’uomo. Cielo e terra, spirito e materia, offrendo gli elementi essenziali per il sostentamento umano, accanto all’intervento contro il nemico, rivelano ancora una volta che tutta la natura, animale o vegetale, è stata creata in funzione dell’uomo, centro dell’universo e fine ultimo della creazione, con la salvezza sempre dell’aiuto divino. Chi ha composto l’ampia scenografia della parokhet ha voluto ricordare, cioè, come la provvidenza e la misericordia divine, attraverso la natura, intervengano a salvare l’uomo, soprattutto nei momenti di maggior bisogno e in situazioni di pericolosa precarietà. 

Proponendo alla pubblica visione tali essenziali interventi divini, quasi con funzione preparatoria, l’intera raffigurazione sembra allora voler suggerire soprattutto il più profondo significato etico e religioso della vicenda biblica: ricordare, cioè, al fedele l’evento-chiave della storia d’Israele, il suo avviarsi alla rivelazione, al momento cardine della sua esistenza storica e spirituale. La scelta della singolare disposizione delle immagini nell’intero impaginato porta a confermare tale importante messaggio. Sono rappresentati infatti i momenti salvifici fondamentali vissuti dal popolo nel deserto prima della rivelazione dal Sinai, che si svela così come l’autentico fine di un percorso propedeutico, quasi di una sorta di vero itinerario di avvicinamento, scandito da eventi che si succedono in sequenza; un cammino spirituale che la prospettiva, dominante nell’insieme, sembra assecondare e visivamente significare, segnata dal dispiegarsi delle tende verso il lontano monte, vero centro dell’ impianto e obiettivo principale dell’intera parabola, orientata all’incontro di Israele con la divinità. 

E tuttavia: se pur l’intento fondamentale è quello di tradurre in immagini un evento tanto significativo, avvenuto durante la lunga permanenza del popolo nel deserto, l’evidente squilibrio nella disposizione dello spazio, laddove le tende, sapientemente disposte, occupano la maggior parte della raffigurazione, evidenzia che, degli episodi più importanti, quello più enfatizzato e più appariscente è di certo la presenza delle capanne, che hanno fatto da ricovero durante i quarant’anni che hanno preceduto l’arrivo nella Terra promessa. Da allora perciò il precetto: «Ogni cittadino d’Israele dimorerà sotto le tende affinché le vostre generazioni sappiano che nelle sukkot ho fatto abitare i figli d’Israele quando li ho tratti dalla terra d’Egitto» (Wayiqrà 23,42-43). Sembra, di conseguenza, possibile ipotizzare che la parokhet, se destinata negli intenti dell’autrice a una particolare ricorrenza, sia stata preziosamente ricamata proprio per la Festa delle Capanne (Sukkot). Se è vero che la festività richiama la dimora dei padri nelle abitazioni provvisorie nel deserto e la costante protezione accordata da D-o; se è vero, d’altra parte, che la sukkà è anche il simbolo della precarietà dell’esistenza umana, che trova nell’intervento salvifico divino l’unica possibilità di sopravvivenza, come veicolato nel testo figurativo, allora il legame tra il messaggio dell’intero apparato iconografico e la festa autunnale del 15 di tishrì è del tutto plausibile.

 La Tevà di Scola Levantina ove per Sukkot veniva esposta la parokhet (1930).

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