Il teatro Habima di Mosca. Uno spettacolo in ebraico (31 gennaio 1922)

Hanna Rovina nella première di Dybuk. Teatro Habima, Mosca, 31 gennaio 1922 (Credit en.Wikipedia.org).  

Fino alla fine dell’Ottocento, gli spettacoli teatrali messi in scena dalle comunità ebraiche nell’Europa orientale erano presentati per lo più in yiddish. La scelta di recitare un testo in ebraico avrebbe potuto incontrare ostacoli insormontabili, sia dal punto di vista della realizzazione che dell’ascolto. Tuttavia, all’inizio del Novecento tra gli appassionati di teatro cominciò a farsi strada un ampio movimento per il ritorno alle origini, non solo come temi, ma anche come lingua delle messe in scena. L’avvio del teatro in ebraico di Mosca, Habima, lo si deve ad appassionati cultori della lingua e della tradizione. Tra questi Naum Zemach (1887-1939), Menahem Gnessin (1882-1951) e Hanna Rovina (1888-1980), animatori di una compagnia di teatro in lingua ebraica. L’iniziativa di tenere spettacoli nella lingua della tradizione si manifestò in un periodo di grandi sconvolgimenti, su tutto il territorio dell’Impero russo (in particolare della parte occidentale, dove le comunità ebraiche erano più numerose), e dunque di instabilità e incertezze, ma anche di speranze per il futuro. A tutto ciò contribuiva, da un lato, la scarsissima conoscenza della lingua ebraica da parte dei giovani attori, dall’altro l’inesperienza, benché supportata da un misto di entusiasmo e fervore mistico. La Rivoluzione e un susseguirsi di eventi drammatici, vissuti con sentimenti diversi, contribuirono a mettere la comunità ebraica in situazioni conflittuali, che in parte si trasmisero anche al teatro.

La lingua dei giovani attori che aderirono all’iniziativa era per lo più un misto di russo e yiddish, mescolati con diverse varietà della “lingua delle origini”. Avevano un’assenza quasi totale di pratica sulla scena; ma ciò che li univa e li spronava a tenere in vita il teatro in lingua ebraica era l’entusiasmo e la speranza che la Rivoluzione avrebbe trovato il modo di supportare sia l’uno che l’altra.
Fu con questo spirito che i fondatori del teatro Habima decisero di rivolgersi ad esperti delle scene teatrali, a cominciare dal Teatro dell’Arte, benché gli spettacoli che Konstantin Stanislavskij proponeva (si pensi a Tre sorelle e al Giardino dei ciliegi) poco avessero in comune con gli obiettivi di Habima. Tuttavia tra i collaboratori del Teatro alcuni avrebbero dato un contributo decisivo alla realizzazione degli spettacoli. 
Dopo alcune prove di spettacoli “nella lingua delle origini”, dovute principalmente all’ideatore dell’iniziativa, Naum Zemach, la compagnia si affidò alla conduzione dell’armeno Evgenij Vachtangov (1883- 1922), che era uno dei collaboratori di Stanislavskij. Vachtangov, benché non conoscesse l’ebraico, in pochi anni riuscì a dare vita alla compagnia, realizzando uno spettacolo, che sarebbe entrato nella storia di Habima. Lo spettacolo, intitolato Dybuk, “leggenda drammatica” di Shalom An-ski (1863-1920) (Dybuk è lo spirito di una persona morta che “rivive” nel corpo di una viva impossessandosene), avrebbe costituito una pietra miliare nella storia del teatro ebraico.

La sua realizzazione, che apparve sulla scena di Habima il 31 gennaio 1922, grazie principalmente al talento, alla forza di volontà di Vachtangov (già gravemente malato) e all’entusiasmo degli attori, vide anche la partecipazione di Hanna Rovina, attrice non più giovane ma dotata di grande volontà e talento e ardente animatrice di precedenti iniziative di spettacoli in ebraico. Al successo dello spettacolo contribuirono anche altre figure già coinvolte nella realizzazione di spettacoli nella Russia postrivoluzionaria. Tra queste, merita menzione Sergej M. Volkonskij (1860-1938) che, da quando era giunto a Mosca (1918) dalla natia Tambov (dove era stato per alcuni anni responsabile dei teatri imperiali), si occupava di varie discipline connesse con il teatro. Tra queste, la dizione e la ritmica, sulle quali era stato invitato a tenere conferenze e lezioni, tra l’altro, al Teatro dell’Arte. Si trattava di “musicalizzare il corpo” rispetto allo spazio, in modo che l’uno e l’altro, come avevano insegnato Adolf Appias (1962-1928) ed Emile Jacques-Dalcroze (1865-1950), si muovessero nella stessa direzione. Problema di non poco conto, dato che la maggior parte degli allievi di Habima sapeva poco o nulla di interpretazione plastica della musica attraverso la ginnastica ritmica. D’altronde Vachtangov insegnava che niente aiuta l’attore nella realizzazione di uno spettacolo quanto l’abnegazione e la perseveranza. 
Volkonskij concentrò le sue lezioni e la preparazione degli attori su due aspetti dello spettacolo, che dovevano accompagnare il testo: l’espressione del volto e il movimento, che insieme alla parola confluivano in un uno spazio unico, ovvero lo spazio ritmico. Il ritmo era dunque l’elemento unificatore della parola e del gesto, quello che consentiva di “mostrare” l’effetto fisico della musica; in altre parole “l’attore deve mostrare la musica”. 
Come ricorda Hanna Rovina, che del teatro Habima fu non solo interprete, ma anche una dei primi animatori, i giovani che affluivano al teatro come aspiranti attori, e che erano tipici comunisti russi, estranei del tutto al nazionalismo ebraico e con una conoscenza approssimativa della lingua, riuscirono a trasmettere a un pubblico poco preparato una buona dose di entusiasmo, animato da un forte anticlericalismo. Nella messa in scena a Mosca del 31 gennaio 1922, si vide un prete inquisitore che nascondeva presso la sinagoga il sangue di un bambino cristiano. E alla domanda «Chi ci salverà?», il pubblico di Mosca si alzò in piedi e intonò l’Internazionale.

Grazie all’interessamento delle Sezioni comuniste ebraiche (Evsekcii), che miravano a creare degli spazi riservati al teatro nella lingua delle origini, dal 1919 Habima era stato incluso tra i teatri che dovevano essere sovvenzionati. Ma, a parte questi sprazzi di entusiasmo, che videro una calda partecipazione di pubblico, benché non sempre conoscitore della lingua, si alternavano vere e proprie crisi politiche ed economiche, anche perché il Governo provvisorio, dopo ripetuti ripensamenti, tendeva a non elargire le sovvenzioni che erano state promesse o che erano comunque attese. L’entusiasmo dei giovani attori che davano vita agli spettacoli non era sufficiente a garantire il successo presso un pubblico che poco o niente sapeva della lingua. Alla fine della prima di Dybuk, che per Vachtangov sarebbe stato anche l’ultimo spettacolo della vita, il pubblico presente in sala venne invitato a contribuire alle spese.

Riferimenti bibliografici
Raffaele Esposito, La nascita del teatro ebraico. Persone, testi e spettacoli dai primi esperimenti al 1948,  Accademia University Press, Torino 2016 (in particolare il cap. 5:“Un pulpito al Teatro d’Arte di Mosca”).
Sergej Michailovič Volkonskij, Moi vospominanija, vol. 2, Iskusstvo, Moskva 1992.

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