Stele del Codice di Hammurabi. Louvre (credit Wikipedia.org)
Su Rivista Biblica LXXI (2023) (pp. 129-171) è stato recentemente pubblicato un mio articolo su “Risarcimento e pena di morte nel diritto biblico-ebraico e ittita” da cui vorrei riprendere alcuni concetti relativi al “Falso mito del taglione”, che purtroppo dagli eventi tragici del 7 ottobre è tornato drammaticamente ad essere usato come stereotipo e tra i più noti e diffusi pregiudizi verso Israele e il mondo ebraico. Raphaël Draï (Le mythe de la Loi du Talion, Paris 2017) afferma che due miti hanno contribuito per quasi duemila anni a snaturare il pensiero ebraico, presentando un’immagine distorta della legge biblica e mettendo in pericolo l’esistenza del popolo di Israele: il mito del deicidio (dell’assassinio del Figlio di Dio), e quello della “legge del taglione” (occhio per occhio, dente per dente).
Tuttavia, il comportamento distruttivo del taglione, con la sua spietata logica di un’azione e reazione simmetriche, appare assolutamente estraneo alla cultura ebraico-biblica, al contrario di quanto è stato affermato nel corso di svariati secoli, soprattutto nel campo degli studi teologici neotestamentari. Spesso in tali studi si attribuiva elettivamente alla Torà la stessa lex talionis, contribuendo in maniera errata a presentare e mitizzare un’immagine distorta e diffamatoria del diritto biblico che avrebbe legittimato e fatto proprio l’antico concetto di ritorsione fisica del taglione babilonese, il quale si adattava prospettivamente bene alla visione distorta di un Dio biblico crudele e vendicativo.
Diversamente, la pena della mutilazione, così frequente nelle leggi assiro-babilonesi, appare inammissibile nello spirito della legge ebraica, data la sacralità del corpo umano fatto a immagine e somiglianza di Dio, e quindi impegnata a salvaguardare da abusi giustizialisti e da condanne che avrebbero potuto menomare l’integrità fisica del reo, giungendo a vietare in generale anche i semplici tagli nella carne fatti in alcuni casi in segno di lutto e persino scritture e tatuaggi sulla pelle (Levitico 19,28).
Analizzando difatti la famosa affermazione che compare nella Bibbia «עַיִן תַּחַת עַיִן שֵׁן תַּחַת שֵׁן – occhio per occhio, dente per dente» (Esodo 21,24; Levitico 24,20), il termine תַּחַת (tachat) viene in genere tradotto con la preposizione “per” che in varie lingue pare in effetti dare una connotazione permutativa e irreversibile, e richiamare una giustizia basata sulla ritorsione. Tuttavia, da approfondimenti dello studio della lingua e del diritto ebraico si arriva a una ricostruzione del vero significato del principio עַיִן תַּחַת עַיִן che ci conduce invece in maniera completamente diversa a intendere un obbligo a una compensazione riparatrice, che quindi non comporti una reazione vendicativa diretta sul reo, ma un giusto risarcimento consono al danno arrecato, cioè il valore compensativo di un occhio al posto di un occhio, in cui la pace giuridica cui si ispira appunto il diritto ebraico porti in realtà proprio all’antitesi di una giustizia fondata sulla vendetta ritorsiva. Quest’ultima potrebbe dedursi in alcuni studi da un’erronea tendenza all’estrapolazione casuale di alcuni passi biblici dal loro contesto, basandosi su apparenti somiglianze concettuali e diversamente utilizzati per stabilire difficili confronti con testi neotestamentari (ad es. Matteo 5,38), talvolta con il fine di condurre a teorie diffamatorie verso l’ebraismo.
Pertanto, la parola תַּחַת, che primariamente significa “sotto”, “in basso”, nei suddetti contesti non può essere tradotta con la preposizione “per”, ma, come vedremo, dovrebbe invece essere resa anche con la formula “in sostituzione di”, “in cambio di”, “al posto di”, come si può rilevare da vari dizionari di ebraico biblico. Di conseguenza, in questo caso תַּחַת designa una preposizione sostitutiva che ci permette di concludere che il legislatore abbia inteso far sì che venisse determinata una compensazione valutata in luogo e in relazione precisa al danno fisico arrecato.
Inoltre, proprio nei testi talmudici si riafferma che solo per gli assassini che hanno intenzionalmente privato un uomo della propria vita non può essere applicato, per l’estrema gravità dell’atto compiuto, il principio del risarcimento attraverso una compensazione patrimoniale, come recita in maniera chiara e inequivocabile Numeri 35,31.
Pertanto, l’espressione «occhio secondo occhio, dente secondo dente» di Esodo 21,24 intenderebbe, oltre al dover risarcire l’occhio con il valore reale dell’occhio e il dente con il corrispondente valore del dente, anche il dover valutare in maniera equilibrata e costruttiva il danno in sé e per sé, a prescindere se la parte offesa sia un uomo importante e ricco o meno.
Il diritto israelita si esprimeva pertanto equamente rispetto a tutte le classi sociali in favore di un risarcimento della parte lesa, che mirava così principalmente alla protezione dei deboli della società e alla limitazione della violenza della vendetta a favore della riparazione del danno.
Per cui proprio negli stessi versetti di Esodo (21,18-32) si prende una posizione che contrasta apertamente con la legge delle lesioni corporali dell’antico codice di Hammurabi, in cui la violenza della sanzione del taglione era usata proprio per dare a una classe dirigente della società antico-babilonese una protezione speciale.
La stessa interpretazione del termine biblico תַּחַת si può ricavare anche in un altro passo biblico che, tuttavia, anch’esso è stato spesso usato, vista l’estrema rilevanza e particolarità dei primi racconti patriarcali, per descrivere in tono denigratorio il Dio di Israele come un Dio terribilmente violento e sanguinario al confronto di quello buono e misericordioso del Nuovo Testamento. Un Dio che si sarebbe spinto a ordinare al patriarca Abramo di compiere un infanticidio attraverso l’olocausto del proprio amato figlio Isacco.
Al contrario, anche in questo caso il messaggio e lo scopo preciso del racconto biblico veniva distorto e decontestualizzato, in quanto esso era finalizzato a sancire in maniera perentoria e totalizzante la condanna di ogni sacrificio umano, permettendo esclusivamente e definitivamente solo sacrifici animali. Infatti, תַּחַת , parola trilittera palindroma,viene usata in questo episodio di Abramo, in cui il patriarca, dopo aver saputo controllare e fermare all’ultimo momento un’azione sanguinaria e irreparabile, sacrifica «al posto di suo figlio – תַּחַת בְּנֹו» (Genesi 22,13), non un altro figlio o essere umano, ma semplicemente un animale selvatico.
Questo ulteriore esempio dell’uso linguistico del termine biblico תַּחַת dimostra che non si tratta affatto di una preposizione di equivalenza, come si intende in genere appunto con “per”, intendendo una semplice permutazione dell’identico. Invece, come avviene anche nell’episodio di Abramo, si ha uno spostamento del sacrificio su una vittima animale, che sembra inaugurare un momento nuovo della coscienza umana attraverso la proclamazione della volontà divina di stabilire chiaramente e universalmente la proibizione assoluta di praticare infanticidi e qualsiasi altro sacrificio umano. Così questo spostamento (al posto di) reso da תַּחַת contraddice ulteriormente in maniera significativa il valore permutativo, talvolta, come detto, erroneamente attribuito a questo termine anche in caso di lesioni fisiche, quando appare inconcepibile che un uomo possa essere condannato da norme contenute nella Torà ad amputazioni o punizioni corporali.
Ciò sembra confermare che nella Bibbia si intenda stabilire in generale una limitazione alla vendetta privata, prevedendo in sostituzione del danno – ad esempio la perdita di un occhio – una pena pecuniaria del valore di non più di un occhio. Quindi, per il colpevole sono la stessa antica tradizione ebraica e le scuole rabbiniche a stabilire che il reato comporterà che si risarcisca con un indennizzo di un valore economico proporzionato comparabile al danno stesso, piuttosto che con un’inutile offesa e mutilazione fisica come prevedeva invece la legge del taglione.
In conclusione, come abbiamo sottolineato proprio per la punizione dei colpevoli di danni corporali, si può con sicurezza affermare, dal punto di vista sia contenutistico che linguistico e quindi non solo secondo le fonti tradizionali ebraico-rabbiniche, che il danno fisico arrecato andava valutato con attenzione da un giudice per arrivare a un’equilibrata riparazione economica, che è quanto di più estraneo possa esistere rispetto alla giustizia violenta e impersonale a cui si affidava il modello del taglione babilonese.