Yom Kippur: la colpa e la vergogna

William Holman Hunt, The Scapegoat, olio su tela, 1854-1856. Lady Lever Art Gallery, Port Sunlight (UK) (credit Wikidata.com)

Il giorno di Kippur viene generalmente inteso come il giorno più importante dell’anno ebraico. Su questo si potrebbe dissentire. Per fare un esempio, il fatto che di Shabbat ci siano più chiamate a sefer (7) rispetto al giorno di Kippur (6) ci dice che in questa scala di importanza (se così si può dire) lo Shabbat viene prima. Resta il fatto che il giorno di Kippur è unico per l’intensità della giornata, la concentrazione che richiede e, soprattutto, la partecipazione del popolo ebraico nella sua pressoché totalità. Nella tradizione ebraica esiste il concetto di “ebreo del Kippur”; si riferisce a quell’ebreo che solo in quel giorno partecipa in modo attivo a una tefillà. Eppure non è certamente il giorno più divertente (come Purim), o quello storicamente più importante (come potrebbe essere Chanukkà) o quello identitariamente più significativo (come potrebbe essere Pesach). Cosa ha lo Yom Kippur di così unico da renderlo un momento centrale per la quasi totalità del popolo ebraico?

Rav Sacks cerca una prova di questo in un rituale, davvero particolare e drammatico, prescritto dalla Torà per questo giorno: il rituale dei capri (descritto in Levitico 16). Dovevano essere offerti due capri per l’intero popolo di Israele. Due capri identici. Uno veniva offerto in sacrificio al Signore, mentre uno, addossandosi le colpe dell’intero popolo, veniva mandato ad ‘Azazel. Non entro nel dettaglio dei possibili significati di questo termine, per ragioni di spazio. Tuttavia, rispetto al “normale” trattamento da parte della Torà dell’espiazione delle colpe presente nell’ambito della descrizione dei sacrifici, il capro ad ‘Azazel è una novità. Normalmente una colpa, se commessa inavvertitamente, richiedeva un sacrificio di espiazione. Nel giorno di Kippur, per espiare le colpe dell’intero popolo, a questo sacrificio si aggiunge il capro ad ‘Azazel.

Rav Sacks ci dà un’interessante spiegazione di questa singolarità. Il versetto che ripetiamo continuamente nel giorno di Kippur dice: «Poiché in questo giorno (il Signore) vi darà espiazione, per purificarvi da ogni vostra colpa». Se per una colpa commessa, in generale, era richiesta l’espiazione, qui, nel giorno di Kippur, viene richiesta anche la purificazione. Nel caso del metzorà‘, la persona affetta da tzara‘at, quella malattia che colpiva chi si era reso colpevole di maldicenza o altri reati pubblici di sopraffazione nei confronti di un’altra persona, abbiamo una cerimonia simile in cui un uccello veniva sacrificato e un altro liberato. In genere il concetto di espiazione e di purificazione sono mondi separati, che però nel giorno di Kippur vengono messi insieme.

Quando si commette un errore, anche qualcosa di grave, esistono due sentimenti diversi che ci relazionano ad esso: la colpa e la vergogna.

Il senso di colpa è personale e viene dalla nostra coscienza, senza necessariamente essere legato a cosa gli altri pensano di noi. La vergogna è quello che proviamo quando ci rendiamo conto che gli altri sanno della nostra azione sbagliata. Il senso di colpa è strettamente legato al fatto e, in quanto tale, possiamo fare un percorso di teshuvà per superare l’azione sbagliata e diventare persone migliori proprio per il fatto di aver superato la colpa. L’assioma è “odia il peccato, non il peccatore”.

La vergogna invece è legata al nostro rapporto con la società. La vergogna è qualcosa che si attacca alla persona, a prescindere dal fatto. Neanche il perdono può rimuovere la vergogna. In una cultura della vergogna, anche se il colpevole ha ottenuto il perdono dalla vittima, o ha espiato la colpa in vari modi, il disonore, la macchia, lo stigma restano in modo indelebile. Il danno alla reputazione rimane nella “fedina penale” della persona. Essa si sente contaminata dalla consapevolezza che il fatto resterà sempre noto nella coscienza collettiva. Questa contaminazione è quello che la Torà chiama tum’à (impurità). 

Capiamo meglio ora perché il giorno di Kippur lega espiazione a impurità. In questo giorno non basta fare i conti con la propria coscienza. Non basta, quindi, espiare le nostre colpe (il capro sacrificato al Signore). In esso dobbiamo curare anche un altro elemento che rischia di bloccarci nel nostro procedere: il senso di vergogna, ossia come una nostra colpa si riflette nei rapporti con il resto della società. 

Secondo rav Sacks questo è il senso più profondo del rito dei due capri. L’ebraismo prescrive in modo chiaro qual è il processo per liberarsi da una colpa e dal senso della stessa che portiamo dentro. Non siamo condannati a vivere troppo a lungo con i nostri sensi di colpa (che in una certa misura sono benefici). La colpa è legata all’atto, e la persona può staccarsi da essa. L’ebraismo, dice rav Sacks, è una religione della colpa e non della vergogna. Ma la vergogna esiste ed è un processo che può contaminarci, de facto. Solo nel giorno di Kippur, il giorno più partecipato dell’anno, poteva essere inserito un rito come quello del capro inviato ad ‘Azazel, un rito complesso, drammatico, condiviso da tutti, che aveva il senso più profondo di dire che anche la vergogna ha un limite, se è il Signore stesso, al di sopra di ogni altro essere umano, a garantirci la purificazione dalle nostre contaminazioni. 

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