Discorso tenuto da Nello Rosselli al Convegno giovanile ebraico di Livorno, novembre 1924

Partecipanti al Convegno Giovanile ebraico di Livorno, novembre 1924 (credit Archivio della Fondazione CDEC Milano).

In aggiunta al dossier sul Limmud, inviatoci dagli organizzatori corredato da alcune foto, aggiungiamo altri due testi per scelta redazionale:
– il discorso integrale tenuto da Nello Rosselli al Convegno del 1924, per il quale la Redazione ringrazia Patrizia Valobra per l’invio del testo ritrovato dattiloscritto fra le carte del padre Enzo, e Valdo Spini, presidente della Fondazione Circolo Fratelli Rosselli, per la gentile concessione alla pubblicazione
;
la sintesi di una delle relazioni presentate, riservandoci di pubblicarne altre nei prossimi numeri. NdR

Voglio darvi subito una buona notizia: sarò brevissimo. Voi d’altra parte saprete perdonare se dirò con brutale concisione cose che meriterebbero una accurata esposizione, per poter essere bene intese. Sarà una rapidissima galoppata in un terreno amplissimo. 
Io non sono venuto a Livorno per discutere questioni di organizzazione culturale o amministrativa dei nuclei ebraici italiani. 
Prima di scendere a tali questioni (sulla cui importanza non discuto) bisogna sapere su che terreno ci muoviamo – chi siamo. Chi io sia e perché io mi senta ebreo e cosa intenda per ebraismo, ecco quanto cercherò di dirvi. Dirò forse qualcosa che alla maggioranza di voi suonerà spiacevole, qualcosa che vi parrà più o meno interessante, certo vi dirò cose sincere, cose che sento, cose che ho lungamente meditate. Desidero perciò di essere compreso da tutti… 
Io sono un ebreo che non va al tempio il sabato, che non conosce l’ebraico, che non osserva alcuna pratica di culto, eppure io tengo al mio ebraismo e voglio tutelarlo da ogni deviazione, che può anche essere amplificazione, come attenuazione. 

Non sono sionista. Non sono dunque un ebreo integrale. 

Non sento il vostro ideale, o ebrei sionisti. Tuttavia, io cerco di avvicinarmi spiritualmente ad esso, con quel trepido interesse, che è proprio una bella caratteristica nostra: questa di vibrare ad ogni cosa alta e bella, al di sopra e al di fuori di ogni dissenso. 

Ma dentro di me è qualcosa che non si accorda con le vostre speranze e con l’opera vostra – le vostre parole, i vostri atti, urtano in me qualcosa di molto profondo, qualcosa cui tengo infinitamente. 

Per i sionisti, per gli ebrei integrali, non v’è che un solo problema: quello ebraico. Tutto, nella loro vita più intima, si risolve, nasce, ritorna, confluisce nell’ebraismo. Non v’è attimo della loro attività spirituale – come non dovrebbe esservi attimo della loro attività pratica – che non sia dedicato al problema ebraico. L’ebraismo compenetra tutta la loro attività; e non esistono per essi il problema morale, il sociale, il nazionale, il religioso se non in funzione dell’ebraismo. 

Per molti altri, anzi per me (perché io parlo qui di me soltanto) il problema ebraico interessa unicamente sotto l’aspetto religioso: io in quanto ho sete di religiosità – sono ebreo. Ma tutti gli altri problemi della vita mi si presentano, ad uno ad uno, con una intensità e, vorrei dire, una angosciosità pari a quella con la quale mi si presenta oggi il problema religioso, assolutamente dissociata dall’ebraismo. 

Il problema ebraico non è, o io non lo sento, come il problema fondamentale, unico della mia vita. 

Questa mia confessione potrà spiacere a qualcuno, essere più o meno disprezzata; ma è una constatazione di fatto. A certi sentimenti profondi non si comanda; si è quel che si è, bisogna risolversi a prender atto di quel che si è. 
Fra me, dunque, e gli ebrei integrali, c’è una differenza molto notevole.

Le nostre vie, diciamolo chiaramente, non sono le stesse, la nostra meta è diversa, vorrei dire che gli elementi costitutivi della nostra personalità sono diversi e dosati in maniera assai differente. 

Quando gli ebrei delle nazioni civili, or sono cento, ottanta o cinquant’anni, furono liberati dalle miserie dei ghetti e delle interdizioni, i rami di questo grande tragico, disperso, oppresso popolo, furono dalla vita innestati sui fusti delle varie nazionalità. Oggi, a distanza di tempo, noi vediamo che qualche innesto è riuscito e si è profondamente attaccato al nuovo fusto e se voi credete e volete tagliarmelo, per trapiantarlo in altro suolo, il ramo innestato intisichisce e muore – in qualche altro morirebbe, se voi non vi accorgeste in tempo che non è stato piantato in un ambiente adatto e che urge dargli la possibilità di svilupparsi altrove. Ora io non credo che vi possa essere identità di sorti tra i due ramoscelli. Se noi riconosciamo questo, amici, se noi riconosciamo francamente che il travaglio delle generazioni precedenti ha mutato in ciascuno di noi un individuo diverso, il quale di fronte alla vita della nazione di cui fa parte, reagisce in modo diverso, e non per calcolo, ma per istinto, per sentimento profondo, se noi riconosciamo questo, constateremo d’essere divisi; sì; ma, attraverso questa stessa constatazione, ci sentiremo, ci faremo più veri, più vicini dunque in una sfera più alta, più disposti a comprenderci vicendevolmente. 

Ripeto che io intendo per ebraismo concezione religiosa della vita. Per me, la questione nazionale che molti di voi sentono intimamente legata con l’ebraismo non ha con questo alcuna connessione. 

Ho esplorato a fondo l’animo mio; non posso dire che questa idea della patria da riconquistare, della terra sulla quale creare la rinnovata unificazione del popolo ebraico, l’abbia una sola volta fatto vibrare. Aggiungerò di più: che ha sempre urtato in me questa che è una delle basi incrollabili del mio essere, la coscienza cioè di cittadino che ha la sua patria, che la ama, la critica, la sprona, la adora, che la ha dunque davvero, che la sente sua davvero, che non intende sentir discutere la sua più o meno legittima appartenenza a questa patria. 

Ma, voi direte: Allora in che ti senti ebreo? Cos’è questo ebraismo al quale tieni cosi gelosamente? 

Non senti l’ebraismo come un qualcosa che penetra tutta la tua vita e la informa tutta, dal primo all’ultimo alito – e sta bene. Non senti così fortemente la unità di razza, da desiderare che essa possa ridiventar popolo e ricominciare la sua storia – e sta bene. Sei religioso – ma nello stesso tempo dichiari di non seguire il rito. Allora, perché ti definisci ebreo? 

Mi dico ebreo, tengo al mio ebraismo perché (e anche qui adombro di volata quanto meriterebbe una lunghissima sosta) è indistruttibile in me la coscienza monoteistica, che forse nessun’altra religione ha espresso con tanta nettezza – perché ho vivissimo il senso della mia responsabilità personale e quindi della mia ingiudicabilità da altri che dalla mia coscienza, da Dio – perché mi ripugna ogni pur larvata forma di idolatria – perché considero con ebraica severità il compito della nostra vita terrena, e con ebraica serenità il mistero dell’oltre tomba – perché amo tutti gli uomini come in Israele si comanda di amare, come anzi in Israele non si può non amare e ho quindi quella concezione sociale che mi pare discenda dalle nostre migliori tradizioni – perché ho quel senso religioso della famiglia che a chi ci guarda dal di fuori, appare veramente come una fondamentale e granitica caratteristica della società ebraica. 

Sono dunque – credo – ebreo; posso dirmi ebreo. 
Le forme esterne del culto ebraico non dicono nulla al mio spirito. Non è colpa mia se il tragico destino di Israele nei secoli ha costretto molti dei suoi figli a concentrare tutta la vita nel cervello, anziché a lanciarsi in libera azione nel mondo, non è colpa mia se questo fatto ha contribuito a sviluppare in tal modo le facoltà critiche di alcuni dei figli di Israele, che essi non sanno più inchinarsi alle forme esterne del culto, non sanno più ricacciare indietro il prepotente bisogno di accordare la loro fede con la loro maturità intellettuale, e disperatamente tendono a sfrondare il loro culto da ogni apparato esteriore, per coglierne l’intima essenza. 
Verrà un giorno – e chissà se lontano o vicino, chissà se a noi sarà dato vederlo – verrà un giorno in cui gli ebrei, quegli ebrei che la pensano come me, avranno la loro religione. Religione; e non più complesso di norme, da mantenersi faticosamente attraverso non dirò la necessita, ma i doveri della vita. Oggi, diciamo pur francamente, quanto sta nel cuore di molti, la pratica della nostra religione si distacca continuamente dalla nazione di cui ci sentiamo figli, anzi serve precisamente a questo. Noi vogliamo accordare la religione con la realtà della nostra vita; la realtà, questa realtà, per molti di noi è qui, non è fuori di qui, non può essere che qui. 
Bando agli equivoci dunque. Ciascuno interroghi sé stesso e trovi la sua via. Due terzi degli ebrei italiani oggi vivono nell’equivoco – distruggiamolo – in questo possiamo tutti lavorare concordemente.

L’equivoco ci tormenta e ci rode. Le cose pensate e non dette ci gravano sulla coscienza. E di più ci gravano le cose dette senza convinzione, senza fede, lette, quasi, fuori di noi stessi. La pena del nostro ebraismo ci sia di spinta a trovare la via. 
Quella pena che ieri Pacifici ci ha comunicata, quell’angoscia che ci ha presi tutti ieri, quel tormento continuo, quel non trovar pace, nel luogo e nel tempo, non è caratteristica di pochi spiriti esaltati – è di tutti quelli che sentono l’ebraismo, è la pena non dell’attimo d’esaltazione, ma di tutti i momenti e di tutte le ore, è la nostra umiliazione, e la nostra grandezza. 

Gli ebrei integralisti trovano la loro pace, o cercano la loro pace in Sion. E anche noi, e anch’io, devo trovar la mia pace, la serenità della mia vita. Essa, non può trovarsi che dove sono le fondamenta della mia individualità: nell’ebraismo e nell’italianità.
O amici, a voi parrà piccola cosa il mio ebraismo, debole cosa, piccola bandiera. Ma io voglio dirvi francamente che la preferisco e la trovo più grande – o meno meschina – di quella di molti altri ebrei – dico molti – che, pur frequentando il tempio e compiendo letteralmente ogni prescrizione della Legge, non hanno questo senso vivo e vivace dell’ebraismo, non hanno, come io ho, questa felicità, sia pur nella pena, dell’ebraismo, e in fondo, lasciatemi dire, lo considerano come un qualche cosa che non deve uscire, per carità, dalle quattro mura della loro casa e del loro tempio, quasi come un panno sporco da lavarsi in famiglia. 

Sì, io preferisco la mia piccola bandiera dell’ebraismo che sventola e sempre più sventolerà fuori dalla mia finestra, ai bandieroni, gelosamente piegati nell’armadio di casa. Forse è meglio creder poche cose, ma crederle e gridarle forte in faccia a tutti, che considerarsi depositari di un immenso tesoro di credenze trasmesseci e da trasmettere, cosi immenso che non ci può penetrare e rinnovare, così pesante che è miracoloso se si riesce, a mala pena, a custodirlo per la propria vita senza curarsi d’indagarne l’essenza più intima e di adeguarsi a quella indissolubilmente. 
Lasciatemi dunque nella mia speranza di quel giorno, nel quale noi potremo credere, concretare e fissare la nostra fede, per provarla al contatto di altri spiriti e per penetrarla sempre più; nello stesso tempo vivere intera la nostra vita e completare la nostra personalità. Lasciatemi sperare in quel giorno. E allora l’ebreo, quell’ebreo che sarà rimasto a viver la sua vita nel paese natale, nel suo paese di ieri, e non di ieri l’altro, certo nel suo paese d’oggi e di domani, rivivrà tutta la sua religione e la seguirà con fervore e andrà fiero, consapevolmente fiero della sua religione – non cercherà di perderla, di nasconderla, ma anzi di diffonderla, di parlarne con tutti, di esaltarla con tutti – perché o amici, il vero è incontenibile e chi sente di possedere il vero non resiste al prepotente istinto di donarlo a quanti lo avvicinano. 
Io non sono dunque ateo, o areligioso. Desidero anzi tradurre la mia religiosità in religione, desidero che quanti sentono con me si sforzino a precisare nell’anima loro questa religiosità e tutti insieme si cerchi di rafforzarla, di temprarla al contatto dell’aria, di fissarla per assicurarle una continuità, per esser certi che non si sperda con noi. Fino a che diventi, per tutti, fonte di ispirazione per la vita quotidiana, rifugio sicuro per gli attimi di scoramento e di delusione, livello costante del nostro spirito, così alto che dia un equilibrio alla nostra vita e ci mandi sereni alla morte. 

Attraverso questo travaglio intimo, noi sentiamo, io sento, di non far opera di distruzione o corrosione dell’ebraismo, ma anzi di contribuire a quell’eterno scambio tra l’uomo e la sua religione, per cui deve avvenire nei secoli un perenne travasamento della religione nell’uomo e una perenne proiezione dell’uomo nella religione. Io sento di non esser lontano da quanti, negli altri popoli e nelle altre religioni, attraverso un non dissimile travaglio, son giunti a una simile posizione morale. E contribuiscono tutti, con quella maggiore o minore forza di cui sono capaci, a quel vasto e indiscutibile destino dell’umanità, che è quello di fondere i suoi vari culti e le sue varie morali in una più alta atmosfera; nella quale, nei secoli e in tutte le parti del mondo, i grandi sistemi religiosi, le grandi filosofie e pensieri dell’uomo semplice nei suoi momenti più puri si toccano e si completano a vicenda. 

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